In occasione della Giornata mondiale per gli animali nei laboratori, abbiamo parlato con Michela Kuan della Lega antivivisezione, per fare il punto sulla situazione italiana.
Il 24 aprile si celebra la Giornata mondiale per gli animali nei laboratori, con lo scopo di ricordare gli animali vittima della vivisezione e aprire un dibattito affinché la ricerca scientifica possa, in futuro, cambiare. A questo proposito, abbiamo parlato con Michela Kuan, biologa e responsabile nazionale dell’area ricerca senza animali di Lav, per capire meglio qual è la situazione in Italia.
Vivisezione o sperimentazione animale?
“Non ci sono differenze tra la parola vivisezione e sperimentazione animale”, ci spiega Kuan. “La parola vivisezione non viene utilizzata semplicemente perché alla gente fa paura”. Secondo la definizione ufficiale del ministero della Salute italiano, che ha il compito di autorizzare le procedure che coinvolgono gli animali, “con il termine sperimentazione animale si indicano tutte le tecniche di ricerca che prevedono l’impiego di animali vivi a scopo scientifico”. Generalmente, gli animali vengono utilizzati per ricerche in ambito farmacologico, fisiologico, fisiopatologico, biomedico e biologico.
Nello specifico, in Italia, sono quasi 600mila gli animali utilizzati ogni anno nei laboratori e comprendono cani, gatti, primati, roditori, furetti, capre, bovini, suini, rane e pesci, solo per menzionarne alcuni. Il numero si riferisce ai dati resi noti nel 2017 e da allora non sono mai state comunicate cifre più aggiornate. All’interno dell’ultimo report, diffuso dallo stesso ministero, si nota una lieve diminuzione del numero complessivo degli animali rispetto agli anni precedenti, ma si registra anche un aumento nell’uso di cani e un’impennata nell’impiego dei macachi.
Questo dato introduce uno dei fil rouge che accomunano molti degli aspetti della vivisezione, dal numero di animali usati, allo stanziamento dei fondi, all’applicazione delle leggi: manca trasparenza. “Sono cifre di quattro anni fa e non ce ne sono di più aggiornate. Noi cittadini non abbiamo accesso a queste informazioni. Quello delle istituzioni è un muro autoreferenziale che si autocomunica. Ad esempio, il numero degli animali, lo stato di benessere, come vengono tenuti, sono dati compilati dal responsabile della ricerca o comunque da qualcuno del gruppo della stessa ricerca. Per questo non sono affidabili”, spiega Kuan.
Si può parlare di benessere animale?
La zona dove ci sono più ombre in assoluto è quella che riguarda le condizioni degli animali nei laboratori, quello che viene definito “benessere animale”, anche se sorge spontaneo chiedersi se si possa davvero mettere nella stessa frase le parole vivisezione e benessere.
“È assurdo che si passi il concetto che in un laboratorio l’animale stia bene. Innanzitutto, non è possibile garantirne il benessere, perché vengono privati dal contesto naturale e in più subiscono procedure che portano loro dolore. E infatti hanno spesso comportamenti stereotipati. È bastato il caso di Green hill, dove bisogna ricordare che gli animali erano solo allevati, non avevano neanche ancora subito le procedure. Erano catatonici, non rispondevano agli stimoli, avevano problemi muscolari, perché non si muovevano, non conoscevano la luce del sole, ed erano fragili. Non solo – continua Kuan –. Abbiamo recuperato due colonie di primati dalle università e tra i comportamenti più classici abbiamo osservato il pacing, cioè il fatto di andare avanti e indietro perché per tanto tempo sono stati rinchiusi in una metratura minuscola. Sappiamo che i topi vengono allevati e tenuti in gabbie che sono grandi come una scatola da scarpe, impilati l’uno sull’altro”.
Chi fa sperimentazione non ha interessi a far vedere quello che succede nei laboratori. Non a caso tutte le volte che le telecamere entrano, scoprono abusi e violenze.
Michela Kuan
A questo si aggiunge il fatto che gli animali “non subiscono solo prelievi o iniezioni, ma parliamo di suture, trapianti di organi, scosse, fratture ossee, intossicazioni con sostanze che portano a svenimento, diarrea, tremori, condizionamenti psicologici”. Quello che manca poi, secondo l’esperta, è una competenza di base del personale che interagisce con gli animali, che molto spesso non è formato per riconoscere le manifestazioni di dolore nelle varie specie con cui ha a che fare. Un fatto che risulta essere ancora più grave quando, nello stesso report del ministero della Salute riferito al 2017, si legge che il 46 per cento degli animali è impiegato in procedure con livelli di dolore “moderato” o “grave”.
È uno scenario in cui viene fatto di tutto a qualsiasi specie.
Michela Kuan
Manca trasparenza anche nelle valutazioni fatte per l’utilizzo di animali
In un tentativo di tutelare quello che viene chiamato benessere animale, la normativa europea ha previsto che ogni allevatore, fornitore e utilizzatore costituisca all’interno delle proprie strutture un Organismo preposto al benessere degli animali (Opba): ciascun Opba è composto almeno dal “responsabile del benessere e della cura degli animali”, dal “medico veterinario” e nel caso di uno stabilimento utilizzatore, da un membro scientifico.
Ma anche in questo caso la prassi risulta essere poco trasparente. “L’Opba dovrebbe sempre essere pubblica, ma succede solo poche volte. Se devo giudicare un protocollo che porta a capo il nome di un mio collega, come faccio ad avere un giudizio critico e obiettivo? Chi fa parte di questo organo dovrebbe appartenere a un istituto o un centro di ricerca differente. In più se l’Opba è chiamata a valutare l’osservazione della legge, ci dovrebbe essere almeno un esperto di metodi alternativi. Ma non c’è mai. Quindi come fanno a valutare la possibilità di impiegare metodi alternativi se non c’è nessuno con una formazione specifica?”, sottolinea Michela Kuan.
I modelli alternativi non vengono finanziati a sufficienza
In teoria, la direttiva 2010/63/Ue, punterebbe a limitare quanto più possibile la sperimentazione animale e ad eliminarla completamente nei casi in cui non sia necessaria. Infatti, per legge, dovrebbero essere favoriti i metodi alternativi e l’uso di animali dovrebbe costituire l’ultima possibilità. Sarebbe dunque logico pensare che la maggior parte dei fondi messi a disposizione dal ministero venissero destinati a progetti che impiegano metodi alternativi, ma la realtà è un po’ diversa.
Non si fa nulla per sviluppare modelli alternativi per poi lamentarsi che non esistono modelli alternativi.
Michela Kuan
“I finanziamenti per i progetti che utilizzano animali superano il miliardo e trecento milioni – ci spiega Kuan –, contro solo i sei milioni destinati al triennio 2020-21-22 per i modelli alternativi. Sono spiccioli in confronto agli altri finanziamenti. Basta pensare al caso dei macachi dell’università di Parma [sui quali i ricercatori volevano studiare la perdita parziale della vista a causa di un danno cerebrale, ndr.]. Quel progetto valeva due milioni di euro, da solo. È la stessa cifra che è stata stanziata per finanziare tutta la sperimentazione con metodi alternativi in Italia in un anno e il ministero non sta rendendo spendibili nemmeno quelli, perché manca la firma del ministro per utilizzarli. Sono niente rispetto a tutto quello che viene investito per gli animali e nemmeno quel niente viene approvato”.
Perché si continua a sperimentare sugli animali
“Dal punto di vista tecnico la sperimentazione animale è un paravento giuridico: utilizzare gli animali è un escamotage per superare molti problemi legali. Ne sono un esempio le battaglie contro il fumo”, spiega Kuan. “Le grandi aziende del tabacco hanno sperimentato per anni sugli animali, sostenendo che il fumo non causasse il cancro. Peccato che gli animali non si ammalano delle nostre stesse malattie. Giuridicamente però erano protetti”, conclude.
Nel 2014, l’Italia ha approvato una legge che vieta l’utilizzo di animali per testare droghe, alcol e tabacco. Dopo sette anni, a causa delle pressioni di quelle stesse lobby, questa legge non è mai stata messa in vigore e si continua a testare tutte queste sostanze sugli animali. “La sperimentazione animale permette di mettere in commercio tantissime sostanze pericolose, per quello le testano sugli animali. Solo una volta messe in commercio e somministrate a un gran numero di persone si può avere una panoramica più completa dei problemi che provocano”. E questo vale anche per i farmaci. “Non a caso, il 50 per cento dei medicinali viene ritirato dal commercio per le reazioni avverse, non preventivamente diagnosticate sugli animali. Siamo noi le cavie del secondo processo, per questo la dicotomia ‘sperimento sugli animali per salvare un essere umano’ è una sciocchezza dal punto di vista scientifico”, spiega Kuan.
24 aprile: Giornata internazionale animali "da laboratorio" In Italia 600 mila usati e uccisi ogni anno Poca trasparenza procedure, controlli e fondi https://t.co/NiWk0Bw6aN Ministro @robersperanza i fondi per la ricerca senza animali ci sono Per non perderli basta una sua firma! pic.twitter.com/rJR3P1ch5X
Con l’arrivo della pandemia e della necessità di sviluppare velocemente un vaccino si è assistito a un aumento vertiginoso della ricerca sugli animali, in particolar modo sui primati, ma anche su gatti, furetti, criceti e topi. Parallelamente a questa strage, la situazione di emergenza ha però permesso alle grandi aziende di evitare alcuni test sugli animali. Nel dossier pubblicato da Lav, Sperimentazione animale e covid-19, a che punto siamo realmente, si legge come “una delle pioniere è stata la società statunitense Moderna, il cui vaccino è stato in grado di bypassare alcuni dei test sugli animali e passare rapidamente a quelli sull’uomo: ciò grazie al superamento del metodo tradizionale dove alle persone viene iniettata una versione inattivata o indebolita del virus. […] Il vaccino mRNA-1273 di Moderna è stato il primo ad iniziare la sperimentazione umana di fase 1, il 16 marzo 2020, dopo un “solo” test su topi, ai quali è stato somministrato un vaccino sperimentale per Mers prodotto nello stesso modo”.
Abbiamo chiesto a Kuan se questo potesse in qualche modo presupporre l’inizio di un cambiamento positivo nel mondo della scienza, ma sfortunatamente il numero di animali morti negli altri esperimenti rimane ancora troppo alto per consentire un’affermazione del genere.
Parlare di vivisezione fa paura. Fa paura vedere cosa succede nei laboratori, ma fa paura anche pensare cosa succederebbe se non ci fossero gli attivisti a mostrarcelo. Fa paura che lo stesso ministero della Salute, che dovrebbe tutelare sia noi che gli animali, non agisca come dovrebbe. Fa paura vedere che ancora una volta, il denaro è capace di oscurare la ragione. La vivisezione fa paura in ogni suo aspetto. Ma è proprio per questo che bisogna parlarne. Come insegna lo scrittore Hans Christian Andersen, ogni cambiamento, ogni rivoluzione grande o piccola che sia, parte da una singola voce che si rende conto di ciò che accade intorno a lei, che si distingue dalla massa. E che ha il coraggio di gridare che il re è nudo.
La campagna Vote for animals, promossa da Lav e altre organizzazioni, mira a far assumere a candidati e partiti un impegno maggiore sul tema dei diritti animali.
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