Il governo della Germania punta ad ottenere 740 milioni di euro all’anno. Che saranno utilizzati per abbassare l’Iva sui biglietti dei treni.
Volkswagen, uno sciopero di dimensioni storiche scuote l’industria tedesca
Il 2 dicembre, i lavoratori della Volkswagen hanno iniziato una protesta contro la chiusura di tre stabilimenti. Il settore dell’auto in Europa è in crisi.
Il 2 dicembre i lavoratori della Volkswagen in Germania sono entrati in sciopero, protestando contro l’annuncio di migliaia di licenziamenti. L’azione, guidata dal sindacato metalmeccanico Ig Metall, si estende a vari stabilimenti, inclusa la sede centrale di Wolfsburg. Questo primo sciopero potrebbe assumere dimensioni senza precedenti se le negoziazioni in programma per il 9 dicembre non porteranno a un accordo. La crisi della Volkswagen, simbolo delle difficoltà dell’industria tedesca, si intreccia con il clima di tensione della campagna elettorale per le legislative anticipate di febbraio, sottolineando l’urgenza di risposte strutturali a livello politico e industriale.
Volkswagen, come si è arrivati a questo punto
Le difficoltà della Volkswagen non sono nuove. A settembre, il gruppo aveva annunciato un piano di riduzione dei costi da quattro miliardi di euro, iniziando con il mancato rinnovo dei contratti per i lavoratori interinali nello stabilimento di Zwickau, specializzato nella produzione di auto elettriche. La debole domanda per questi veicoli ha messo in crisi il sito, portando a ipotesi fino ad allora impensabili: la chiusura di impianti in Germania, un tabù per una realtà che non licenzia da trent’anni e che si era impegnata a mantenere i livelli occupazionali fino al 2029.
A fine ottobre, la situazione si è aggravata. Il consiglio di fabbrica ha confermato l’intenzione della Volkswagen di chiudere almeno tre stabilimenti su dieci e ridurre gli stipendi del 10 per cento. La reazione di Ig Metall è stata immediata, con dure critiche ai vertici aziendali e la promessa di uno scontro frontale. Intanto, i bilanci del gruppo peggioravano: gli utili netti del terzo trimestre 2024 sono crollati del 64 per cento rispetto all’anno precedente, segnando 1,58 miliardi di euro in meno.
L’annuncio è stato seguito da tre cicli di negoziati tra l’azienda e il sindacato, che però non hanno prodotto risultati. Le parti s’incontreranno nuovamente il 9 dicembre a Wolfsburg per un quarto ciclo di negoziati. “Purtroppo dovremo procedere a chiusure di stabilimenti e licenziamenti, non vedo altra strada”, aveva affermato a novembre Thomas Schäfer, l’amministratore delegato della Volkswagen, il marchio più in difficoltà di un gruppo che comprende anche Audi, Porsche, Seat e Skoda. Ora la Volkswagen intende chiudere tre stabilimenti, per la prima volta nei suoi 87 anni di storia. Il gruppo ha attualmente dieci fabbriche in Germania e circa 300mila dipendenti, di cui 120mila per il marchio Volkswagen.
La concorrenza cinese e le proposte di consorziarsi
La crisi della Volkswagen è uno specchio delle difficoltà che attraversano l’intera industria automobilistica europea. La crisi è aggravata sia dalla competizione cinese, che domina il mercato delle auto elettriche con prodotti tecnologicamente avanzati e prezzi competitivi, sia dalle perdite sul mercato cinese del gruppo tedesco, mercato un tempo strategico per il fatturato di Volkswagen. La concorrenza cinese, sostenuta da sussidi governativi e un’elevata produttività, sta erodendo le quote di mercato dei produttori occidentali.
Secondo Bloomberg, le principali case automobilistiche europee, tra cui Volkswagen, Stellantis e Renault, stanno affrontando una crisi senza precedenti, con un calo delle vendite del 20 per cento rispetto ai livelli pre-pandemia e una trentina di impianti che operano in perdita. Stellantis, in particolare, ha registrato un crollo degli utili di quasi il 50 per cento nella prima metà del 2024. In Italia, la produzione è diminuita di oltre un terzo nei primi sei mesi dell’anno, colpendo duramente stabilimenti come quelli di Melfi e Mirafiori. Lo scorso 12 settembre, il gruppo ha annunciato la sospensione della produzione della Fiat 500 elettrica. Nel frattempo, Carlos Tavares, artefice della fusione tra Psa e Fca nel 2020, ha lasciato il suo incarico di amministratore delegato, che avrebbe dovuto ricoprire fino al 2026. La decisione, presa all’unanimità dal consiglio di amministrazione, è risultata inaspettata, nonostante l’anticipazione da parte dell’azienda che il manager avrebbe concluso il contratto. Tavares si congeda con una buonuscita di 100 milioni di euro, consolidando il suo status di dirigente più pagato nell’industria automobilistica.
A livello europeo, dunque, la risposta alla crisi del settore automobilistico appare frammentata. Da un lato, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha avviato un tavolo di discussione per esaminare nuove modalità di calcolo delle emissioni, con l’obiettivo di consentire la vendita di auto con motori a combustione anche oltre la scadenza del 2035; dall’altro, emergono proposte come quella di Luca de Meo, amministratore delegato di Renault, che auspica la creazione di un consorzio europeo per l’auto elettrica sul modello Airbus per gli aerei. Questa potrebbe rappresentare una via d’uscita, ma richiede investimenti massicci e un coordinamento politico che attualmente manca. Senza un piano europeo organico, il rischio è che l’industria automobilistica del continente diventi sempre più dipendente da tecnologie sviluppate e prodotte in Asia.
Allargando lo sguardo, il settore dell’auto elettrica è in stallo anche negli Stati Uniti: durante la sua campagna elettorale, il presidente eletto Donald Trump ha preso di mira i crediti federali al consumo che attualmente offrono fino a 7.500 dollari per l’acquisto di un veicolo elettrico. Si annuncia una battaglia contro le politiche di stati come la California che si sono dati l’obiettivo di vendere auto esclusivamente elettriche dal 2035. Eppure, Elon Musk (patron della Tesla) che avrà un ruolo di rilievo nella prossima amministrazione degli Stati Uniti, ha detto di avere delle proposte per non affossare un comparto che almeno negli Usa sostiene 9,7 milioni di posti di lavoro e immette più di 1.000 miliardi di dollari nell’economia ogni anno. Non resta che aspettare.
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