Wael Al-Dahdouh di Al Jazeera: la vita, la morte e il giornalismo nella Striscia di Gaza

Il caporedattore di Gaza del network qatarino ha continuato a raccontare l’assedio nonostante la sua tragedia familiare: ora lo fa anche dall’Italia.

L’avambraccio destro è ancora steccato, a oltre un anno dall’esplosione da cui è uscito vivo per miracolo, nel dicembre 2023, mentre raccontava in diretta un raid delle forze israeliane su una scuola di Khan Younis, a Gaza. Wael Al-Dahdouh in quell’occasione era stato ben più fortunato del suo cameraman, Samer Abudaqa, che in quel bombardamento ci ha lasciato la vita. Dire che Wael Al-Dahdouh, caporedattore di Al Jazeera per la Striscia di Gaza, sia un uomo fortunato però è esercizio molto difficile: tenace, coraggioso, anche eroico, sì. Fortunato, forse solamente fino a quel 7 ottobre 2023, il giorno che ha cambiato la storia di Gaza. E la sua.

Da Al Jazeera alla Camera, il racconto di Wael Al-Dahdouh 

“Sono qui tra di voi e ancora non ci credo” esordisce dalla sala stampa della Camera dei deputati, ospite protagonista di una iniziativa completamente disertata dagli esponenti della maggioranza. “A Gaza la professione del giornalista si può definire la professione della morte. Ma questo tocca anche alle moglii, ai figli, ai padri, ai cugini. Esattamente come in tutta la storia della guerra di Gaza, che è fuori da ogni logica”. Wael Al-Dahdouh parla a ragione veduta, perché porta ancora addosso i segni della tragedia collettiva e personale che lo ha colpito: era il 28 ottobre del 2023 quando la sua famiglia fu massacrata da un bombardamento israeliano sul campo profughi di Nuseirat, e lui apprese la notizia mentre era in collegamento in diretta televisiva su Al Jazeera. Poi la corsa e lo strazio dignitoso, ripreso dai media, mentre abbraccia il nipotino di 6 mesi ormai senza vita: immagini che hanno fatto il giro del mondo. “Ci era stato assicurato che il luogo dove erano stati portati i miei familiari era sicuro. Non lo era”.

Wael Al-Dahdouh si presenta alla Camera per iniziativa dell’Integruppo parlamentare per i diritti umani presieduto dall’ex portavoce di Unhcr Laura Boldrini, e del gruppo di amicizia tra Palestina e Israele coordinato da Stefania Ascari, per parlare dell’importanza del giornalismo in contesti di guerra come quelli di Gaza, dove “tutte le porte sono chiuse per l’esterno”. Dove dall’8 ottobre 2023, all’indomani degli attentati di Hamas che hanno provocato la spropositata reazione di Israele, “noi potevamo sempre prevedere che qualcosa di pericoloso stesse per succedere, ma mai con la violenza e la crudeltà con cui poi avveniva”.

Ricostruire la vita, passando dalla tregua

Sono morte almeno 50mila persone da quel giorno, sotto le bombe e i proiettili di Gaza, e tra loro più di 200 giornalisti: tutti palestinesi, o che al limite si trovavano a Gaza già prima del 7 ottobre, perché alla stampa internazionale non è mai stato permesso di entrare nella Striscia a documentare le atrocità che stavano avvenendo prima della fragile tregua di questi giorni. Morti evitabili e spesso, dice Wael, non frutto di “errori”, ma volute: “Noi facciamo un lavoro garantito da tutte le leggi internazionali. Malgrado questo dobbiamo pagare un prezzo altissimo. Avevamo auto con segnali molto chiari per il riconoscimento della stampa, le scritte Press, e ci muovevano con molta cautela. E spesso anche con il permesso delle truppe di occupazione di terra. Malgrado questo ci sparavano contro, come a me a Khan Younis”.

Wael ripercorre i giorni drammatici successivi alla morte di sua moglie, di due dei suoi figli, di altri 6 membri della sua famiglia. “Mi chiedevo che cosa potessi fare io, mi consigliavano di prendere una vacanza. Ma ho deciso di tornare subito a lavorare. Bisogna continuare a trasmettere da Gaza, è l’obiettivo primario, senza fermarsi”. Anche se, aggiunge, “tutte le telecamere del globo non possono descrivere la situazione di donne, bambini e sfollati”. A Gaza è avvenuta la distruzione del 70-80 percento degli edifici esistenti, “non è rimasto nulla. Mi hanno mandato foto di posti che conoscevo bene e non sono riuscito a riconoscere nulla. Non c’è traccia di vita né di motivi di vita”. Di quella vita che invece pure c’è, dice gli piacerebbe parlare delle condizioni con cui viene vissuta: “Di come è riuscire a farsi un bagno, trovare dell’acqua per bere”. Oggi, a Gaza, c’è una tregua fragile, messa a rischio negli ultimi giorni dal nuovo acuirsi di tensioni sullo scambio di prigionieri: secondo Wael Al-Dahdouh “dobbiamo applicarla fedelmente, si deve iniziare da lì. Certo prima di tutto questo si poteva arrivare a una soluzione con due Stati per due popoli, ora ci sono molti ostacoli in più. Ma se ci sarà una possibilità di ricreare la vita a Gaza, noi lo faremo”.

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