Con una sentenza storica, la Cassazione conferma la condanna per il comandante italiano che ha consegnato 101 migranti alla Libia.
Walden Bello, sociologo. Come possiamo cambiare il mondo dopo la pandemia
La via democratica è fondamentale per uscire dalla pandemia. L’intervista al sociologo filippino Walden Bello che ha dedicato tutta la vita ai diritti umani.
Walden Bello: una vita per i diritti umani. Dalla lotta contro la dittatura nelle Filippine a proposte per un mondo più equo dopo la pandemia. Se la grandezza di un essere umano si basa sulle sue azioni, lui è a tutti gli effetti un gigante.
Nato a Manila nel 1945, ha scritto la storia della sinistra progressista globale. Sociologo, accademico, ambientalista, attivista, ha saputo anticipare cambiamenti epocali grazie a intuito e acuta osservazione. Da laureando, in Cile capì che l’estrema destra avrebbe potuto rovesciare il presidente Salvador Allende. Negli Stati Uniti, dove si è specializzato e tuttora insegna, trovò le prove che la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale sostenevano il regime autoritario di Ferdinand Marcos (1965-1986). Un suo libro ispirò il movimento popolare che lo fece crollare.
Walden Bello fu tra i primi a dire che il “miracolo economico asiatico” avrebbe portato a ulteriori disastri, come la crisi finanziaria del 1997, anticipatrice di quelle successive. Nel 1999 a Seattle fu picchiato dalla polizia, mentre manifestava per una riforma dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), e rischiò la vita nella repressione del 2001 al social forum di Genova. Ma non si è mai arreso. Nel 2003 gli è stato assegnato il Right livelihood award, anche noto come premio Nobel alternativo, e fra il 2009 e il 2016 ha servito il suo Paese al congresso. Per Naomi Klein è un punto di riferimento. “Nei momenti in cui i nostri valori progressisti sono attaccati, ridicolizzati, impopolari, veniamo messi alla prova. Allora dobbiamo andare avanti”, dice in questa intervista esclusiva a LifeGate.
Walden Bello ci parla da Bangkok, dove presiede il think thank Focus on the global south: “Qui ho visto come un sistema sanitario pubblico robusto, che collabora con la società civile, può contenere le epidemie”. Ecco la sua visione del mondo durante e dopo la pandemia da Covid-19, l’ennesima crisi che ci costringe a imparare dal passato e a ripensare subito il futuro.
Dove ha trascorso il lockdown e che tipo di esperienza è stata per lei?
Sono rimasto bloccato a Bangkok, in Thailandia. Ma è stato positivo, perché ho potuto osservare come la cooperazione tra la società civile e le autorità sanitarie pubbliche abbia prodotto una risposta robusta alla crisi. Alla base di questa collaborazione, una fiducia sviluppata in cinquant’anni di campagne di successo sulla salute pubblica. La Thailandia ha contenuto la Covid-19, registrando poco più di 3.150 contagi e ‘appena’ 58 morti. Il contrasto tra centinaia di migliaia di infezioni e altre migliaia di morti negli Stati Uniti e in Europa è semplicemente sconcertante.
E non c’è solo l’esempio tailandese.
Taiwan ha avuto pochi decessi e il Vietnam nessuno. In tutti i tre casi non è stato decisivo il fatto che dei leader autoritari dessero degli ordini dall’alto. In realtà, nella fase iniziale il regime militare tailandese ha commesso degli errori. Ciò che ha fatto la differenza non è stato solo l’uso di mascherine, che fra i tailandesi ha comunque raggiunto il 95 per cento, rispetto al 15 per cento del Regno Unito e al 48 per cento degli Stati Uniti. Per stabilizzare la situazione e frenare la diffusione del virus, è stato determinante il lavoro stretto fra autorità sanitarie pubbliche e società civile. Il ruolo del governo e l’impatto del decreto d’emergenza da esso emanato si possono considerare superflui.
“Il neoliberismo sta morendo”. Secondo lei ne è stata prova la crisi del 2008-10 e ora, dopo solo un decennio, la pandemia. Come possiamo convincere la gente della verità di questa sua affermazione?
La pandemia ha sconvolto un mondo che non si era ancora ripreso dalla crisi finanziaria globale del 2008. Prima di essa, era già presente una disillusione di massa verso il governo degli Stati Uniti, che ha favorito il salvataggio delle grandi banche al posto dei proprietari di case in bancarotta. Dal 2008, inoltre, gli Usa hanno mantenuto livelli di disoccupazione molto alti a causa di un’ideologia neoliberale che si fonda sulla resistenza alla spesa pubblica. L’Europa meridionale e orientale si trovava nella morsa di programmi di austerità ideati per spremere alla popolazione i fondi necessari a ripagare le istituzioni pubbliche europee e il Fondo monetario internazionale (Fmi), che ha salvato le banche tedesche e francesi. Nell’ultima decade l’economia mondiale è entrata in uno stato di ‘stagnazione secolare’, come ha ammesso lo stesso Fmi. Quando la pandemia ha colpito, i sistemi economici già in difficoltà si sono bloccati. Nelle maggiori economie, solo nel primo quarto di quest’anno, il Pil è sceso di punti percentuali compresi fra il 4 per cento e il 7 per cento. Il più grande declino in dieci anni. I più ottimisti stimano per il 2020 una discesa del prodotto interno lordo (pil) globale almeno del 6 per cento. Milioni gli individui verranno scaraventati tra le fila dei disoccupati; negli Usa, per esempio, quasi il 30 per cento della forza lavoro.
Come stanno reagendo i governi?
I governi sono stati costretti a spingersi oltre le loro risposte alla crisi finanziaria del 2008 e sono intervenuti su larga scala con programmi di incentivi fiscali per evitare la catastrofe economica e la conseguente apocalisse politica. Il contrasto fra le anemiche risposte del 2008-10 e la vigorosa – seppur ancora limitata – reazione alla pandemia ha aperto gli occhi alla gente. Ha mostrato che cosa è possibile fare quando il governo accantona le soluzioni di mercato e opta per un’azione decisiva. In sintesi, la credibilità del pensiero neoliberale e delle sue politiche, già sconvolta dieci anni fa, è stata resa ancor più debole dalla pandemia. La sola domanda adesso è se la morte del neoliberismo sarà veloce o lenta, come ha detto l’economista Dani Rodrik.
In Italia dopo due mesi di lockdown più rigido, si prevede un’enorme crisi economica. Perché il nostro sistema è tanto fragile? Fino agli anni Ottanta d’estate si fermava tutto, fabbriche, servizi, negozi…
Le economie del Nord e del Sud del mondo sono più fragili oggi rispetto agli anni Settanta e Ottanta per tre motivi. Il primo: la globalizzazione della produzione ha portato alla de-industrializzazione di molte economie nel Nord e al trasferimento dei processi di lavoro intensivo nel Sud, dove i compensi sono molto più bassi. Catene di fornitura globale hanno rimpiazzato la produzione domestica, sia nell’industria che nell’agricoltura. Tali catene sembrano efficienti, ma in realtà sono molto deboli, suscettibili a interruzioni provocate da guerre, disastri naturali e pandemie. Quando il coronavirus ha colpito, le linee di produzione cinesi si sono fermate, causando una carenza elevata di beni essenziali, incluse le mascherine e altri dispositivi di protezione, in molti paesi. In questo momento, invece, assistiamo allo sconvolgimento delle catene globali di distribuzione alimentare con l’alta possibilità che nei prossimi mesi, in alcune zone del mondo, si soffra la fame.
Gli altri due motivi?
Secondo motivo: le politiche neoliberali hanno esasperato il consumo ovunque, e tutti noi sappiamo che il consumo è la benzina della domanda. Nel Nord, dove le persone stanno uscendo da indebitamenti di massa, gli stipendi sono fermi allo stesso livello da vent’anni. Nel 2008 la richiesta di un prestito non era più solo un’opzione, perché si rischiava di perdere la propria casa e cadere in povertà. Al contempo, le politiche adottate per aumentare il tasso di profitto hanno condotto a disuguaglianze sempre più grandi.
Infine, il terzo motivo. Con l’industria stagnante, gli investimenti sono stai indirizzati alla finanza, che attraverso la speculazione ha ottnuto immensi profitti. Sebbene contribuisca solo dal 5 per cento al 10 per cento del pil, il settore finanziario statunitense ha costituito circa il 40 per cento di tutti i profitti aziendali. Però, investire nella finanza non crea nuovo valore. Il profitto proviene dalla speculazione o dai prezzi gonfiati. Ma se capita che questi crollino, la crisi arriva e nei suoi picchi si verifica una recessione acuta dell’economia produttiva reale.
Come possiamo riprenderci?
In prospettiva, la guarigione sarà molto difficile. L’unica ripresa sostenibile possibile dipende dall’abbandono radicale dei principi del neoliberismo e da un aumento sostanziale dell’intervento dello Stato. La domanda è: l’intervento statale sarà progressista e punterà nella direzione del socialismo, o repressiva e incline al fascismo?
Lei ha individuato tre scenari possibili dopo la pandemia. Uno di essi include la deglobalizzazione. In che cosa consiste?
Vedo tre possibili strade per uscire dalla crisi attuale. La prima è la restaurazione delle politiche neoliberali che, però, è la più improbabile. La gente non le accetterà più a lungo, visto che hanno prodotto solamente disuguaglianze. La seconda è quella che ho appena definito progressista. Ovvero, un esteso intervento statale in un contesto più democratico di decisioni economiche, di maggiore emancipazione popolare e uguaglianza, di adozione di politiche benefiche per il clima.
Negli ultimi anni sono stati proposti vari paradigmi entusiasmanti, come la decrescita, la sovranità alimentare e la deglobalizzazione. Io sono stato associato a quest’ultima. Deglobalizzazione significa che il perno dell’economia è la domanda domestica generata da politiche ugualitarie. Si cerca di proteggere l’industria, l’agricoltura e i posti di lavoro dalle delocalizzazioni di un sistema d’importazioni fuori controllo. La terza strada, purtroppo, è quella fascista. L’intervento statale in economia avviene in un sistema politico che adotta le misure di welfare sociale della sinistra, ma le riserva solamente ai bianchi o al ‘giusto’ ceppo etnico. Minoranze e migranti diventano dei capri espiatori da incolpare per il malcontento popolare e i disordini sociali. La lotta per sostituire il neoliberismo agonizzante è fra progressisti e fascisti.
Lei osserva con attenzione la psicologia delle masse per capire i fenomeni sociali. Che cosa vede adesso?
Nel 2008 le persone furono sconvolte dalla crisi finanziaria, ma venivano da vent’anni di navigazione relativamente tranquilla. Anche se sotto l’acqua piatta le disuguaglianze stavano crescendo, non erano così alienate dal sistema capitalistico e neoliberale. Ora è diverso. Nel Nord la gente è molto insofferente. E nel Sud i continui aggiustamenti strutturali del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, iniziati negli anni Settanta, hanno lasciato speranza di sviluppo a pochissime persone. In aggiunta, hanno completamente cancellato il vivace sentimento popolare che si era creato nell’era della decolonizzazione, fra gli anni Cinquanta e Settanta.
Si teme che l’estrema destra, in questa dialettica, abbia la meglio. Lei trova delle similitudini con gli anni Trenta del secolo scorso. Quali, in particolare? Come possiamo scongiurare un revival repressivo?
Purtroppo, l’estrema destra si trova in una posizione migliore per approfittare del malcontento popolare. Questo perché, persino prima della pandemia, i suoi partiti avevano scelto con cura alcuni programmi ed elementi anti-liberistici della sinistra indipendente. Ad esempio, la critica alla globalizzazione, l’espansione del welfare statale, un intervento dello stato più importante in economia, ma buttando tutto dentro una ‘gelstalt’ (forma o rappresentazione, ndr) di destra. In Europa alcuni partiti della destra radicale – come il Front national di Marine Le Pen, il Partito popolare danese, il Partito della libertà in Austria, il Fidesz di Viktor Orban in Ungheria – hanno abbandonato alcuni principi neoliberali, come la liberalizzazione e la detassazione.
Adesso si dicono a favore del welfare statale e della protezione dell’economia dagli impegni internazionali. Tuttavia, pensano solo al bene di chi presenta ‘il giusto colore della pelle’, ‘la giusta cultura’, ‘il giusto ceppo etnico’, ‘la giusta religione’. In pratica, si tratta del vecchio nazionalsocialismo inclusivo per le classi, ma discriminatorio in termini di razza e cultura. Oggigiorno, un praticante consumato di questa formula è Donald Trump che ha vinto inaspettatamente le elezioni del 2016. In questi tempi difficili, la sua destra estrema è riuscita a conquistare larghi settori della classe operaia.
E l’estrema destra in Asia?
Due leader sono emersi nel Sud del mondo e hanno evidenziato più che nel Nord degli aspetti della dinamica di estrema destra. Mi riferisco al presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, e al primo ministro dell’India, Narendra Modi. Entrambi sono molto popolari perché hanno saputo sfruttare l’insoddisfazione della gente verso i fallimenti della liberaldemocrazia, in particolare il divario tra le sue promesse di equità e la realtà di profonde disuguaglianze e povertà. Questi individui carismatici hanno convinto le rispettive cittadinanze che i programmi anti-liberali sono la soluzione ai malesseri sociali. Stiamo assistendo al paradosso in cui libere elezioni li confermano clamorosamente al comando e conducono a una maggiore concentrazione del potere nelle loro mani.
Duterte è contro il fondamento democratico dell’equo processo e Modi attacca la laicità dello stato.
Entrambi non manterranno le loro promesse e le loro politiche economiche causeranno grandi problemi, come già sta avvenendo a causa della demonetizzazione lanciata da Modi. Eppure godono di una larga maggioranza. In questo senso la democrazia sta rafforzando l’autoritarismo. Perché tanto successo interclassista? Una ragione centrale è rappresentata dal loro carisma, sebbene a sinistra siamo scettici o addirittura ostili verso questo tipo di spiegazione. Il carisma è una relazione sociale fra chi conduce e chi è condotto. Dobbiamo cercare di comprenderla. Altrimenti, non capiremo mai perché nel mezzo dei più pesanti bombardamenti la maggioranza dei tedeschi – inclusi i giovani Günter Grass (che in seguito diventeranno socialdemocratici) sono rimasti leali a Hitler.
Dunque, la sinistra come può riconnettersi alle persone?
Dobbiamo ammettere che pur avendo molte buone idee su come cambiare il mondo, non siamo stati capaci di trasformarle in una massa critica sul campo. La destra ha imparato dalla sinistra e forse quest’ultima dovrebbe cercare delle lezioni nel successo dei suoi avversari. La storia si muove secondo una dialettica complessa. Spesso, avvengono degli sviluppi inaspettati che generano opportunità per chi è abbastanza coraggioso da coglierle. Colui che pensa fuori dagli schemi e cavalca la tigre nella sua imprevedibile corsa al potere. Credo che a sinistra ci siano molte persone così nelle nuove generazioni.
La sinistra deve connettersi con la realtà, quando ha il potere di ristrutturare la società, ma anche riconsiderare il ruolo delle emozioni in politica, verso le quali è sempre stata – anche a ragione – sospettosa, persino rigida. Può la sinistra trovare un compromesso fra il suo concetto di elettore o cittadino razionale, e i suoi valori? Quando Antonio Gramsci disse “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”, credo intendesse proprio questo. Tuttavia, forse, la lezione che la sinistra deve imparare più in fretta è che la storia non perdona e raramente tollera chi commette gli stessi errori due volte. Se i progressisti dovessero permettere a socialdemocratici già screditati, nello stile di Barack Obama e Joe Biden, di stringere di nuovo un patto con il neoliberismo, le conseguenze potrebbero essere fatali.
Per il Transnational institute ha scritto il rapporto “Never let a good crisis go to waste”, dove spiega che la pandemia ha creato l’opportunità di accrescere la sovranità alimentare. Molti paesi poveri potrebbero produrre cibo da soli. Come si possono stabilire nuove regole per gli stati e le multinazionali?
L’impatto della pandemia sulla catena alimentare globale è coinciso con un drastico indebolimento dell’Organizzazione mondiale del commercio, dopo che l’amministrazione Trump ha rifiutato di aderire alle sue regole multilaterali, preferendo rapporti bilaterali. Sebbene i neoliberisti condannino questa svolta unilaterale degli Usa, tale situazione è in realtà positiva per il Sud globale. I paesi poveri hanno l’opportunità di liberarsi dalle regole dell’Omc, che hanno gravemente danneggiato la loro agricoltura negli ultimi 25 anni. Possono reintrodurre delle quote o delle tariffe alte sulle importazioni, al fine di proteggere i loro produttori e avanzare verso l’autosufficienza e la sovranità alimentare. Ovvero verso il diritto della popolazione di stabilire priorità, pratiche e modelli.
Nella guerra dei dazi, gli Stati Uniti di Trump hanno attaccato l’altro gigante economico, la Cina. Come valuta il ruolo di Pechino nella pandemia?
Il fatto che il Partito comunista abbia occultato le informazioni sull’epidemia di Covid-19, quando è iniziata a Wuhan, è deplorevole e un forte monito al mondo sui danni dell’autoritarismo. In questo momento, sia il regime di Pechino che Trump, con le sue azioni anti-scientifiche e razziste, come chiamare il coronavirus ‘Kung flu’, sono considerati davvero irresponsabili e inaffidabili.
Lei ha criticato la Belt and road initative (Bri) cinese perché sta per distruggere moltissimi ecosistemi. Dato preoccupante che potrebbe essere all’origine di zoonosi, malattie che dagli animali passano all’uomo, come il nuovo coronavirus.
Secondo gli analisti, la Bri con le sue reti di strade, ferrovie e gasdotti in Eurasia introdurrebbe più di 800 specie invasive negli ecosistemi locali, destabilizzandoli. Ma non vedrei questo piano tanto come una forma di dominio, quanto come un grandioso e anacronistico ritorno al Ventunesimo secolo dei tecnocrati, dello Stato socialista e di quei modelli di sviluppo che hanno prodotto le dighe Hoover negli Usa, Tre gole in Cina, Narmada in India e Nam Theun 2 in Laos. Sono come dei testamenti che Arundhati Roy ha chiamato ‘la malattia di gigantismo della modernità’, e altri marchiano con ‘neosviluppo’ o ‘estrattivismo’.
Gli altri paesi democratici come dovrebbero rapportarsi al governo cinese?
La migliore posizione che si può assumere nei confronti della Cina è di criticare con molta franchezza gli aspetti negativi delle sue politiche interne, economiche, estere e militari, per evitare che segua la via dell’imperialismo occidentale. Essere calmi e accomodanti con Pechino incoraggerebbe gli elementi ultranazionalisti all’interno della leadership.
Nel 2001 partecipò al Genova social forum. Che cosa ricorda di quell’esperienza?
Seattle nel 1999 e Genova nel 2001 furono due picchi del movimento anti-globalizzazione. Lo stato italiano rispose in modo molto repressivo: ricordo migliaia di persone coraggiose e ordinate che marciavano in vie strette mentre i carabinieri li colpivano con gas lacrimogeni, una condotta estremamente irresponsabile. Se la gente si fosse lasciata prendere dal panico, ci sarebbero stati molti morti e feriti. Io fui detenuto dalla polizia e quasi schiacciato da una loro auto in un vicolo, dove essa era entrata per disperdere i manifestanti. Ho dovuto appiattirmi contro un muro, solo pochi centimetri mi hanno impedito di fare il mio ingresso nell’eternità.
Quella repressione potrebbe essere stata pianificata per distruggere i movimenti progressisti?
Non è stata quella repressione a togliere il vento alle vele del movimento anti-globalizzazione. A interrompere il nostro slancio, sono stati gli attacchi dell’11 settembre 2001. Siamo stati il suo più grande danno collaterale. In seguito, le élites dell’establishment hanno potuto mettere al centro l’anti-terrorismo, offuscando l’ostilità che nei loro confronti era stata incarnata dal movimento anti-globalizzazione. Una nuova iniziativa è stata presa dalla sinistra solamente nel 2008, quando contro la crisi finanziaria si è generato il Wall Street occupy movement.
Lei ha condotto molte battaglie per i diritti umani. Dove trova la forza e la speranza?
A essere sincero, in questi giorni ho molti dubbi, soprattutto quando vedo la gente andare a destra. Mi chiedo: sono sul percorso giusto? E’ davvero naturale dubitare, se parlando di diritti umani ed equo processo, la gente del mio paese, le Filippine, mi chiede in modo impaziente e sincero: ‘Perché ostruire gli sforzi del presidente Duterte di salvare la società filippina?’. Ma è nei momenti in cui i nostri valori progressisti vengono attaccati, ridicolizzati, resi impopolari che noi veniamo messi alla prova: scegliamo di ritirarci e zittirci, o di continuare a parlarne? Al contempo, sono consapevole dei limiti della mia generazione, i sessantottini che hanno dominato la sinistra globale dalla fine degli anni ’60 all’inizio del 2000. Agiamo, forse, imprigionati in vecchi modelli di analisi e organizzazione. Dobbiamo sostenere nuovi leader che sono capaci di raggiungere ciò che noi non abbiamo ottenuto. Queste persone potrebbero emergere in circostanze non ortodosse e imprevedibili
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