La regista Sarah Friedland ha usato il suo discorso di ringraziamento alla Mostra del cinema di Venezia per esprimere il suo sostegno alla popolazione palestinese. Per fortuna, non è stata l’unica.
Watermark, al cinema lo spettacolare documentario che indaga l’atavico rapporto tra l’uomo e l’acqua
Arriva al cinema Watermark, un emozionante viaggio lungo le acque del Pianeta, tra scenari mozzafiato, grandiose opere d’ingegno e indelebili segni lasciati dell’insaziabile sete di controllo degli esseri umani.
Viviamo su un Pianeta fatto per il 70 per cento di acqua. Il nostro stesso corpo è composto, per oltre la metà, di acqua. Nell’acqua sono nate le prime forme di vita sulla Terra e intorno a lei sono fiorite le più grandi civiltà. Non ci sono dubbi, insomma, che il genere umano debba moltissimo a questo prezioso elemento, eppure è già chiaro che per lei ci troveremo a “combattere la guerra del futuro”. Troppo a lungo l’abbiamo data per scontata, sprecandola e inquinandola in un assurdo paradosso che ora sta riscuotendo il suo prezzo. Flagellati da siccità, esondazioni e fenomeni erosivi o contaminati da attività antropiche altamente impattanti, interi ecosistemi sono ormai stravolti, mettendo a rischio la nostra stessa sopravvivenza e quella del mondo animale e vegetale. Uno scenario cui fa da contraltare l’enorme sforzo dell’ingegno umano, capace di costruire nei secoli grandiose opere in grado di incanalare e plasmare il corso delle acque della Terra.
A restituire all’acqua il ruolo da protagonista che le spetta è il film Watermark – L’acqua è il bene più prezioso, diretto dalla pluripremiata regista Jennifer Baichwal e dal celebre fotografo Edward Burtynsky, con la collaborazione di Nicholas de Pencier. Un sodalizio che si consolida dopo il recente successo del docufilm Antropocene, l’epoca umana e che questa volta attraversa il mondo mostrandoci i segni “in filigrana” (watermark in inglese) che l’acqua lascia sulla superficie della Terra. Segni sempre più dettati dall’intervento umano nel suo incessante tentativo di “dare una forma” all’acqua, piegandola alle sue insaziabili esigenze.
Una clip in esclusiva del film Watermark mostra il fotografo Edward Burtynsky mentre sorvola la zona più produttiva del Texas, resa fertile grazie a canali di irrigazione che però consumano più acqua di quella che riesce a refluire nella falda acquifera di Ogalalla.
Watermark, un libro, una mostra e un film
Inserito all’interno di un più vasto progetto di Edward Burtynsky dedicato all’acqua (che include anche un libro e una mostra fotografica), il film conta sulle eccezionali riprese di Nicholas de Pencier, qui anche produttore, e arriva ora nei nostri cinema (dal 14 ottobre), otto anni dopo la sua realizzazione. Un ritardo che non lo rende affatto superato, in un momento storico in cui il tema dell’acqua resta della massima attualità e il rischio di trovarci presto a combattere per il suo controllo una concreta minaccia.
Frutto di tre anni di lavorazione, il film rappresenta il naturale proseguimento del precedente lavoro del trio creativo, Manufactured Landscapes (2006), e arriva dopo il successo di un altro lavoro nato dalla loro collaborazione: il docufilm Antropocene – L’epoca umana (2018).
Se con le precedenti opere i tre cineasti si erano concentrati sulle conseguenze dell’impatto dell’attività umana sul pianeta, mostrandole in modo provocatorio e dirompente, con Watermark passano a descrivere e mostrare il ruolo fondamentale che l’acqua ricopre nella formazione e nello sviluppo dei popoli della Terra.
Dalla vastità al dettaglio, tutte le forme dell’acqua
Duecento ore di girato (sia originale che d’archivio), realizzato in 29 diversi formati multimediali e girato in otto lingue diverse. Attingendo a questa imponente mole di materiale, gli autori di Watermark e il montatore Roland Schlimme hanno dato forma a venti storie, collocate in dieci Paesi diversi e tutte collegate da un unico file rouge: il rapporto dell’uomo con l’acqua. “Le difficoltà di questo progetto dal punto di vista logistico erano spaventose”, spiega il produttore e direttore della fotografia Nicholas de Pencier, sottolineando come, nonostante tutto, in tre anni di lavoro nessuna telecamera sia incredibilmente finita in acqua, ma ammettendo anche: “Ci sono caduto solo io, qualche volta”. Oltre a farci viaggiare per il mondo seguendo queste venti storie, il documentario ci mostra anche alcuni momenti “dietro le quinte” del lavoro fotografico condotto da Burtinsky, aprendo un piccolo varco sul lavoro tecnico e artistico che ha guidato il progetto.
A tenere insieme tutto il racconto, anche visivamente, è la fusione di due punti di vista: quello della vastità dell’acqua, resa grazie alle tante riprese aeree (in un 5K ad altissima definizione), e quello del dettaglio, catturato con l’osservazione ravvicinata di questo prezioso elemento. Un approccio nato da una domanda che gli autori lasciano emergere nel documentario: “Quante volte prendiamo davvero in considerazione la complessità di questa interazione? Ogni quanto ci fermiamo a meditare sulla peculiarità dell’acqua di creare, sostenere e insieme arricchire la Vita?”.
Dalla Cina alla Groenlandia, tutti i luoghi del film
Per rispondere a tutte queste domande, l’artista e il suo team hanno girato il mondo per anni, cercando di capire in che modo l’uomo è attratto dall’acqua, che cosa essa gli insegna, come la usa e quali sono le conseguenze che questo uso comporta. Seguendo questo viaggio, sorvoliamo il delta del Colorado, il “fiume rubato” che, dopo quarant’anni di totale assenza di acqua, si è trasformato in un deserto; o che scopriamo la storia del lago Owens, oggi totalmente prosciugato a causa della deviazione dell’acqua verso la città di Los Angeles, nel 1913.
Come l’acqua, anche le immagini scorrono senza sosta e ci accompagnano fino alle enormi coltivazioni galleggianti di conchiglie abalone al largo della costa cinese del Fujian e, ancora, tra i grandi terrazzamenti di riso cinesi, dove un solitario “guardiano dell’acqua” controlla che nessuno ne devi il percorso. Attraverso l’occhio delle telecamere, visitiamo anche il cantiere di Xiluodu in Cina, la più imponente diga ad arco al mondo, ed entriamo nelle desolanti concerie di cuoio di Dacca (capitale del Bangladesh), dove si confezionano merci dirette in tutto il mondo e dove le acque reflue – colme di sostanze tossiche – si riversano nei corsi d’acqua locali.
C’è spazio anche per intervistare gli scienziati che estraggono “carote di ghiaccio” a due chilometri di profondità sotto la calotta glaciale della Groenlandia, per studiare il clima del passato e poterci così preparare alle conseguenze imminenti del riscaldamento globale in atto. L’attrazione dell’uomo per l’acqua e il suo desiderio di domarla sono raccontati anche attraverso le vertiginose immagini degli Open di Surf a Huntington Beach (Stati Uniti), dove i più intrepidi surfisti solcano le onde enormi, riuscendo incredibilmente a non restarne travolti. In un certo senso la perfetta metafora di quell’equilibrio cui l’uomo dovrebbe aspirare nel suo rapporto con l’acqua.
Lasciandosi alle spalle le impetuose onde oceaniche, il documentario arriva fino alle placide acque del fiume Gange in India, per catturare le immagini del Kumbh Mela di Allahabad, il pellegrinaggio nel quale oltre 30 milioni di persone raggiungo il fiume sacro per immergersi nelle sue acque e purificarsi dai peccati, secondo l’antica credenza.
Si arriva infine a luoghi in cui il ciclo idrologico ha già raggiunto uno stadio di crisi avanzata, nell’incontaminato bacino idrografico Sacred Headwaters nella Columbia Britannica dove “l’acqua delle nuvole incontra la terra”, come un nativo di queste terre ci spiega accompagnandoci attraverso le “cime del tetto del mondo”, profondamente mutate negli ultimi decenni.
Edward Burtinsky: “Cos’ho imparato girando Watermark”
Procedendo con lentezza e senza aggiungere alle immagini nè voci fuori campo o didascalie per orientarci nel tempo e nello spazio, Watermark attraversa così il nostro Pianeta nel giro di un’ora e mezza. Una scarsità di informazioni didascaliche che può risultare disorientante e frustrante, ma che la regista Jennifer Baichwal spiega così: “Non amo inserire nei documentari contenuti didattici a meno che il soggetto non lo richieda espressamente, rendono la trattazione troppo prevedibile e lo spettatore si ritrova a essere un consumatore passivo anziché parte attiva nel processo di esplorazione. L’opposto della collaborazione, insomma”. Un invito, dunque, ad attivarsi per scoprire e conoscere, spinti dalle suggestioni suscitate nel film.
Dal canto suo ,Burtinsky ammette di aver vissuto un’esperienza formativa molto profonda durante le riprese: “Ho imparato molte cose sull’acqua. Interrompere il suo corso naturale crea sia vincitori che vinti. Quando l’acqua non viene riassorbita dal terreno o non riesce a trovare la strada per ributtarsi nell’oceano, si mettono in moto cambiamenti del paesaggio. Quando un fiume o un torrente viene deviato, tutte le forme di vita a valle ne risentono e subiscono un’alterazione fino al ritorno dell’acqua. Insetti, piante, rane, salamandre e migliaia di altre creature – incluse le persone – hanno pagato e continuano a pagare un prezzo enorme a causa della nostra vorace “fame di acqua” e di ciò che facciamo alla terra per saziarla”. Una lezione che si imprime negli occhi dello spettatore ad ogni fotogramma. E che non potrà più lasciarci indifferenti.
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