Ha 300 anni e può essere visto persino dallo spazio. È stato scoperto nel Triangolo dei Coralli grazie a una spedizione della National Geographic society.
Partiamo dalle storie per riconoscere la biodiversità, partiamo da We are nature expedition
Tutelare la biodiversità per salvare il Pianeta. We are nature expedition raccoglie voci da tutto il mondo riguardo all’impatto che l’uomo ha sulla natura.
Da quando 300mila anni fa l’essere umano ha iniziato il suo percorso sulla Terra, ne ha modificato le leggi e gli equilibri per rispondere ai suoi bisogni, reali o percepiti che fossero. Convinti di essere dotati di un’intelligenza superiore, noi esseri umani, ci siamo affidati alla scienza e alla tecnica, plasmando la natura e vivendo al di fuori delle sue leggi, senza realizzare che non solo ne facciamo parte, ma da essa dipendiamo e traiamo tutte le risorse necessarie alla nostra sopravvivenza.
Questa forma di cecità, mista a inconsapevolezza, si è rivelata una vera e propria guerra allo specchio visto che la distruzione della biodiversità, a causa del nostro stile di vita, costituisce uno dei problemi più gravi per il nostro futuro e il nostro attuale impatto può essere paragonato a tutti gli effetti ad una delle cinque precedenti estinzioni di massa. I dati che emergono dall’ultima versione del Living Planet index del Wwf parlano chiaro: in soli 46 anni – tra il 1970 e il 2016 – abbiamo provocato un calo del 68 per cento della popolazione di 21mila specie di mammiferi, uccelli, pesci, rettili e anfibi analizzati. A preoccupare maggiormente è l’area tropicale delle Americhe, dove la riduzione è addirittura del 94 per cento. La situazione è così compromessa da non coinvolgere solo le specie, ma interi ecosistemi e, in mancanza di azioni adeguate, c’è il serio pericolo che foreste e oceani tropicali possano collassare già nel 2040.
We are nature expedition: non lasciamo che la biodiversità svanisca
Se i dati parlano chiaro – e lo fanno da molto tempo – perché non abbiamo agito prontamente invece di arrivare così vicini a quello che il Report sui limiti della crescita, datato 1972, aveva chiamato “punto di arresto e collasso”? Il problema è che quella che stiamo attraversando, e che abbiamo causato, è sia una crisi ecologica a 360 gradi che una forma di smarrimento causato dai molteplici, e spesso contraddittori o poco chiari, messaggi comunicativi. Stiamo vivendo in un’epoca caratterizzata da molteplici crisi interrelate e sistemiche e la comunicazione, in questa situazione, è stata sia vittima che complice. Ci troviamo di fronte ad un bivio ed in ballo non ci sono solo tutti i beni e i servizi che la biodiversità ci garantisce quotidianamente, ma un insieme di valori che definiscono le nostre identità culturali, il nostro futuro e quello delle generazioni a venire e che appartengono a ciascuna delle specie che vive su questo Pianeta. Per questo, 18 mesi fa, insieme al mio compagno di vita e di lavoro, abbiamo deciso di andare sul campo e di dare vita a Wane – We are nature expedition, un contributo attivo a quella che speriamo sia una rivoluzione nelle nostre azioni e nel nostro modo di guardare alla natura.
Viaggeremo per un anno lungo la Panamericana, una lunga strada “dall’altra parte del mondo”, che attraversa la maggior parte degli ecosistemi del pianeta ed è accompagnata, nel suo scorrere, dalla presenza vicina e ricorrente dell’oceano. Attraverseremo quattordici paesi, dall’Alaska all’Argentina, ma proveremo a spingerci fino all’Antartide, raccogliendo informazioni sullo stato della biodiversità e sull’impatto delle attività umane. Per farlo abbiamo scelto di usare uno degli strumenti che, secondo lo scrittore israeliano Yuval Noah Harari, ha consentito all’essere umano di evolversi: la capacità di creare racconti condivisi. Fin dalla notte dei tempi, infatti, le storie ci hanno consolati, educati, messi in guardia contro i pericoli… ma ci hanno anche orientati a cooperare per sopravvivere. In ognuno dei luoghi che andremo a documentare, dunque, incontreremo attivisti, associazioni, ricercatori, semplici cittadini che lottano ogni giorno per garantire la sopravvivenza di un mondo naturale che rischia di scomparire. Da qui, infatti, il nome Wane che in inglese significa svanire, ma che è anche l’acronimo di We are nature expedition, una spedizione che vuole tentare di costruire il consenso attorno ad un’evidenza: noi siamo natura.
La biodiversità ci dimostra che siamo tutti interconnessi
A spiegare in modo semplice e puntuale questo concetto è stato, per primo, Edward O. Wilson, padre del concetto di biodiversità e grande biologo e naturalista statunitense. Quest’ultimo, infatti, riteneva che non fossimo noi a possedere la biosfera, ma che ne facessimo parte. In effetti, Homo sapiens è il prodotto vincente di un processo evolutivo di selezione naturale così come le altre milioni, se non miliardi, di specie che vivono sulla Terra. Organismi con cui interagiamo continuamente, fuori e dentro di noi, visto che il nostro stesso corpo è un insieme di ecosistemi per batteri, archea, funghi e acari che vivono sulla nostra pelle, nella bocca e persino nell’apparato uro-genitale. Ognuno di questi organismi, dai più piccoli e meno conosciuti, fino alle specie più iconiche, è un patrimonio inestimabile di conoscenza e, se scomparisse, porterebbe con sé sia la sua funzionalità a livello ecosistemico che la speranza di creare nuovi farmaci, alimenti, fibre naturali, e tanto altro. A titolo di esempio, basti pensare che, nel 1901, Maurice Maeterlinck scrisse che se non fossero visitate dalle api, circa 100mila specie di piante scomparirebbero. Ora sappiamo che la cifra è sottostimata visto che, solo in Europa, l’84 per cento delle specie coltivate, fondamentali per la nostra alimentazione, e il 75 per cento delle specie a fiore selvatiche dipende da questi organismi.
Per questo, nel corso della spedizione, uno dei concetti chiave che cercheremo di fare emergere con forza è quello di interconnessione tra specie e culture. A partire dai caribou, risorsa alimentare di sussistenza nonché uno tra gli animali culturalmente più emblematici per moltissime comunità di nativi del Nordamerica che tuttora vivono tra la penisola del Labrador, in Canada, e l’Alaska. Proprio loro, sono stati tra i primi ad accorgersi del grave declino che i cambiamenti climatici, l’inquinamento e la deforestazione stavano provocando nelle popolazioni di questo ungulato, e che rischia di cancellare un pezzo importantissimo della loro identità culturale e delle loro tradizioni. Non è insolito, infatti, che alla scomparsa di una specie faccia seguito la drastica diminuzione degli individui di quelle popolazioni indigene con cui vivevano in un rapporto di perfetto equilibrio. Lo sapevano bene i coloni europei che, una volta arrivati in Nordamerica, nel tentativo di eliminare le popolazioni native, hanno sterminato i bisonti che vivevano nelle Grandi praterie. Questi delicati territori, ora, sono per il 90 per cento di proprietà privata e, rappresentando la spina dorsale dell’industria bovina nordamericana, sono oggetto da decenni di una sfrenata opera di conversione agricola.
Dalla tundra artica ai ghiacciai dell’Alaska, passando per la foresta temperata del British Columbia canadese, dove vive l’orso spirito, specie sacra alle popolazioni indigene che vivono nella Great bear rainforest. Percorreremo decine di migliaia di chilometri attraverso paesaggi vulcanici, praterie, deserti e paludi. Ci immergeremo nel mare di Cortez, in Baja California, dove nuotano creature all’apice della catena alimentare oceanica, come gli squali, e dove il conflitto tra uomo e fauna selvatica trova una chiave di volta nel turismo sostenibile. Navigheremo il Rio delle Amazzoni per entrare nel cuore della Bolivia amazzonica, uno dei luoghi più biodiversi al mondo, dove la maggior parte delle aree ancora inalterate sono protette dalle comunità indigene. Documenteremo il lavoro di quelle associazioni che lottano contro il bracconaggio e credono che la conservazione della biodiversità funzioni solo a partire dal coinvolgimento delle comunità locali. Il tutto con l’obiettivo di mettere in rete le realtà che incontreremo, esportare buone pratiche e dimostrare che le storie possono aiutare a comprendere come la biodiversità sia una biblioteca vivente e che ciascuno dell’indefinito numero di organismi che abita sul nostro pianeta ci racconta da dove veniamo, dove siamo e quale direzione dovremmo auspicabilmente prendere per assicurare la sopravvivenza a tutte le specie, compresa la nostra.
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