Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
Wearable activism: cosa c’entrano politica e attivismo con la moda
Statement stampati su t-shirt e capi che supportano messaggi politici: anche il modo in cui ci vestiamo può essere uno strumento per manifestare.
- Si parla di wearable activism quando messaggi sociali e politici diventano i protagonisti di abiti e accessori, o ne guidano il design.
- Indossare simboli, colori, accessori o uniformi riconoscibili come appartenenti a uno specifico movimento è un modo per riconoscersi e sostenere una causa comune.
- Il wearable activism può avere origine “dal basso”, ovvero dall’utilizzo da parte di un gruppo di persone di determinati abiti e accessori, oppure “dall’alto” quando sono gli stessi designer a includere messaggi politici nelle loro collezioni.
La moda e l’abbigliamento hanno, da sempre, giocato un ruolo significativo nei movimenti sociali e politici che hanno punteggiato la storia: basti pensare agli indumenti o ai segnali di riconoscimento di movimenti sovversivi ad esempio. L’intersezione tra moda e attivismo politico ha consentito nel corso della storia di esprimere ideologie, sfidare norme e promuovere cambiamenti e questo perché abiti e accessori possono essere simboli potenti di ideologie politiche. Gli attivisti spesso utilizzano colori specifici, slogan e simboli che rendono palesi credenze e appartenenze: sono tutti esempi di wearable activism. Nei momenti di intenso fermento sociale e politico, come quello che stiamo vivendo tra guerre, cambiamenti climatici e intensa discussione sui diritti civili, messaggi e prese di posizione utilizzano per emergere tutti i canali a propria disposizione, incluso l’abbigliamento.
Wearable activism: gli strumenti che la moda dà alla protesta politica
Non sarà sfuggito a molti il fatto che durante l’ultima cerimonia degli Oscar sui look di alcune star come Billie Eilish, Mark Ruffalo e Ramy Youssef siano comparse spille rosse raffiguranti una mano con al centro un cuore. Quei pin appuntati su abiti da migliaia di dollari altro non erano che un appello, tanto silenzioso quanto visivamente potente, per il dare il proprio sostegno ad un associazione, My voice my choice org, che difende i diritti riproduttivi delle donne in Europa. In sostegno della stessa causa in Italia Skin ha indossato, durante il festival di Sanremo, una kefiah appuntata sulla giacca: realizzato dal brand di rifugiate palestinese Sep Jordan, il tradizionale copricapo arabo è diventato negli anni un simbolo di sostegno alla causa palestinese. Red carpet importanti, come quello degli Oscar, dei Golden Globes o del Met Gala, in cui i look degli ospiti vengono commentati e passati al setaccio dalla stampa, sono una cassa di risonanza ottima per esprimere le proprie idee politiche e sociali, o associarsi a un movimento, anche senza parlare. Nel 2018 non era insolito vedere altre spille appuntate sugli abiti da sera della star, questa volta nere e con la scritta “Time’s up”: una chiamata all’azione collettiva in seguito alle denunce di molestie sessuali a Hollywood e all’esplosione del movimento #MeToo.
Femminismo e antirazzismo passano anche dall’abbigliamento
Il giorno dopo l’insediamento di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti, il 21 gennaio 2017, migliaia di donne hanno sfilato per le strade di Washington nella Women’s march per protestare contro il neo eletto presidente, dalle posizioni e dalla retorica notoriamente misogina. La marcia ebbe un enorme successo anche per via dei pussyhat, cappelli rosa con le orecchie da gatto indossati dalle migliaia di manifestanti e diventati istantaneamente un simbolo di lotta per i diritti delle donne. Nello stesso anno Missoni ha fatto indossare il pussyhat alle sue modelle in passerella e messo il cappello in produzione. La designer specializzata in wearable technologies Melissa Coleman nel 2016 ha voluto dare ad uno dei suoi accessori una specifica connotazione di attivismo politico: con il suo Political Lace, un elegante colletto staccabile incorporato con un dispositivo a led che lampeggia ogni 7,5 minuti, l’intenzione è quella di focalizzare l’attenzione sulla frequenza con cui le donne, ancora oggi, muoiono di parto.
Durante la marcia su Washington del 1963 – quella durante la quale Martin Luther King pronunciò il suo celebre discorso – tutte le donne afroamericane scelsero di indossare capi in denim, tute unisex e di portare i capelli naturali per mostrare la loro resisenza a quello che la società si sarebbe aspettata che indossassero e alle norme di comportamento e di abbigliamento dei binchi. Per le donne afroamericane, inoltre, indossare abiti o accessori a tema africano era un modo per combattere silenziosamente per l’uguaglianza. Basco nero, occhiali da sole scuri e giacca di pelle nera ornata di spille era invece l’uniforme del movimento Black Panther e dei suoi sostenitori: questo tipo di abbigliamento simboleggiava apertamente una sfida agli standard e alle norme di abbigliamento dei bianchi, che seguiva le logiche della rispettabilità. Indossare il basco nero negli anni Sessanta significava sostenere il movimento Black Panther. Nel panorama italiano la battaglia femminista intersezionale è simboleggiata dal fucsia acceso, scelto da Non una di meno come propria nuance di riferimento e indossato dalle manifestanti durante le manifestazioni del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, e dell’8 marzo, Giornata internazionale dei diritti delle donne.
Il wearable activism è fatto anche di messaggi da indossare
Gli attivisti usano spesso il wearable activism per attirare l’attenzione sulle loro cause: slogan, immagini e messaggi stampati e ricamati sull’abbigliamento possono servire come forma di protesta indossabile, contribuendo a sensibilizzare l’opinione pubblica. Un esempio piuttosto famoso risale al 2021 quando l’allora deputata per i democratici americani Alexandria Ocasio-Cortez si presentò su red carpet del Met Gala, uno degli eventi più significativamente rilevanti del fashion system, con un abito bianco con la scritta rossa “Tax the rich”. Manifestazioni eclatanti a parte, però, gli strumenti che la moda dà alla protesta e alla rappresentazione politica sono molti. L’utilizzo di un codice di abbigliamento prestabilito è infatti utile per costruire un’identità visiva collettiva e pubblica su questioni sociali e politiche, è un strumento per rendere un movimento visibile.
Il saggio The good citizen di Russell Dalton, nel tentativo di studiare il concetto cittadinanza nel ventunesimo secolo, collega le variabili della cittadinanza impegnata analizzando il ruolo dell’industria della moda nel coinvolgimento politico e sociale e nell’attivismo. La moda è infatti una piattaforma per trasmettere messaggi politici e uno strumento per provocare cambiamenti. Basti pensare a slogan come “The future is female” o “We should all be feminists” che sono passati da essere uniforme delle assemblee femministe a look iconici delle sfilate di grandi maison del lusso come Dior. Se è vero che la moda è specchio della società, è altrettanto vero che il sovvertire certe norme di abbigliamento o il dare voce a certi messaggi abbia un riscontro nella società. Tematiche come il diritto all’aborto esplicitato dal claim “My body my choice”, o la preoccupazione per i cambiamenti climatici riassunta in “There is no planet B” che Ecoalf stampa su t-shirt e shopper, sono sempre più al centro del dibattito pubblico perché continuamente minacciate. Il fatto che i designer scelgano di stamparli o ricamarli è anch’esso un modo di fare attivismo. Così come è un modo di fare attivismo nascondere dei messaggi nei propri indumenti, cosa che ha fatto Patagonia nel 2020 modificando l’etichetta di uno specifico prodotto: un paio di pantaloncini blu dove, al posto della taglia, compariva la scritta “Vote the asshole out”. Si trattava degli ultimi mesi dell’amministrazione Trump.
Sovvertire le norme: l’esempio della moda di genere
Gli attivisti oggi stanno usando l’abbigliamento per sfidare ruoli di genere tradizionali e promuovere l’inclusività e l’uguaglianza. La moda ha infatti il grande potere di sovvertire norme e aspettative culturali, fungendo da forma di resistenza contro sistemi oppressivi. Basti pensare al successo sempre crescente delle collezioni genderless e genderfluid, che rifiutano la tradizionale categorizzazione binaria rispetto a ciò che è da considerarsi maschile o femminile. Un enorme spartiacque in questo senso è stato l’avvento di Alessandro Michele da Gucci. Negli anni in cui è stata guidata dal designer, ovvero dal 2015 al 2022, la maison del lusso ha portato il rifiuto politico del binarismo di genere all’attenzione del grande pubblico e sui red carpet più blasonati. La moda infatti consente a individui e comunità di esprimere la propria identità e il patrimonio culturale: indossare abiti associati a una particolare causa o movimento è una strada, ma lo è anche vestirsi per portare avanti istanze di appartenenza o di negazione, come nel caso del rifiuto del binarismo di genere. Sfidare o sovvertire i codici di abbigliamento è un modo per protestare contro leggi o politiche restrittive: il solo atto di vestirsi in un certo modo può diventare una forma di disobbedienza civile.
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