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Tutto quello che c’è da sapere sulla fastidiosa Xylella
Quando niente e quando troppo. In tema di xylella, l’Italia passa dall’inerzia a un eccesso di attivismo, imponendo per decreto ministeriale trattamenti insetticidi incompatibili con le norme dell’Unione europea. L’approfondimento dell’esperto.
Il presente articolo è destinato alla “Rivista giuridica dell’ambiente” e viene qui anticipato privo del consueto apparato di note
- Xyella fa rima con trivella
- Un dramma annunciato dal declino dell’agricoltura
- E dalla corsa alla cementificazione
- Le “cure” normative dell’epidemia di Xylella
- La Xylella fa i conti con la società civile
- Ricerca, precauzione, tecnologia: chi fermerà la Xylella
Xylella fa rima con trivella
Un serial killer si aggira per le Puglie. È la Xylella fastidiosa, l’ormai famigerato batterio che (pur tra mille incertezze scientifiche) dissecca e uccide o, peggio, condanna all’espianto ulivi malati ed ulivi sani secondo una proporzione che fa impallidire il ricordo delle stragi naziste commesse durante la Seconda guerra mondiale: sono considerati kaputt, e dunque vanno espiantati, tutti gli ulivi sani nel raggio di cento metri da quello malato. Nonostante la drasticità di questa misura, di natura chiaramente precauzionale (e che, come tale, non riscuote consensi unanimi sul piano scientifico, ma la cui legittimità è stata confermata da una sentenza della Corte di giustizia europea del giugno 2016), l’epidemia di xylella, conclamatasi nel Salento tra il 2011 ed il 2013 per cause ancora sconosciute (ma un’inchiesta avviata nel 2015 dalla Procura della Repubblica di Lecce punta il dito contro l’attività di una organizzazione internazionale), si è ormai estesa a quasi tutte le campagne pugliesi ed è assai probabile che prima o poi varchi i confini regionali per colpire l’intero territorio nazionale.
Volendo per il momento restare in Puglia, va aggiunto che in questa regione xylella fa rima con trivella. È infatti cosa nota che il sonno di buona parte dei pugliesi è turbato tanto dal batterio killer quanto dalle trivelle utilizzate per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi offshore (per tacere di altre drammatiche emergenze regionali, come l’Ilva): e alcuni tra gli insonni sostengono che i terremoti registrati tra marzo ed aprile 2018 in una delle regioni storicamente meno sismiche d’Italia siano dovuti proprio alle masse d’aria che, nello stesso bimestre, sono state “sparate” sui fondali marini per accelerare l’individuazione dei giacimenti (la tecnica cosiddetta air-gun). Poiché, come noto, l’insonnia gioca brutti scherzi, per sapere se l’air-gun è realmente la causa dei recenti terremoti pugliesi ci si dovrebbe rivolgere a geofisici e vulcanologi; e questi, dal canto loro, escludono, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, l’esistenza di qualsiasi nesso di causalità tra i due fenomeni. Ma poiché la risposta degli esperti tira in ballo lo stato delle conoscenze scientifiche, per sua natura in continua evoluzione, il passo successivo dovrebbe essere, sul piano politico e normativo, quello di invocare una moratoria sull’air-gun fondata sul principio di precauzione, e cioè su quel principio generale di politica ambientale fondato proprio sull’incertezza delle conoscenze scientifiche.
E invece nessuno (o quasi) invoca siffatta moratoria, anche perché il principio di precauzione – dopo il momento di celebrità vissuto tra il 1998 ed il 2003, ai tempi della moratoria europea sugli Ogm – ha subito una vera e propria damnatio memoriae e ormai trova poco spazio anche nei trattati internazionali dedicati alla tutela dell’ambiente, suo originario ambito di applicazione. È quindi singolare che il principio in questione sia stato riesumato per giustificare le misure normative volte a contrastare la Xylella fastidiosa (come quella, citata in apertura, relativa all’espianto massiccio di ulivi sani), anche se è facile intuire le ragioni del diverso approccio precauzionale in materia di xylella e di trivelle (e chi non dovesse intuirle le troverà descritte nel prosieguo).
Un dramma annunciato dal declino dell’agricoltura
Un’ultima, anche se articolata, considerazione introduttiva. Si parla moltissimo di alimentazione (e di cucina) e pochissimo di agricoltura, come se i consumatori dovessero abituarsi all’idea che il cibo cali direttamente dal cielo, come la biblica manna, e si materializzi nei supermercati o tra le mani di chef più o meno famosi. Se si guarda con attenzione all’evoluzione della Politica agricola comunitaria (la celebre Pac) ed al parallelo sviluppo dell’agro-industria europea, questo risultato potrebbe costituire un effetto non del tutto indesiderato, o imprevisto, sul piano culturale: e l’annunciato arrivo sulle tavole dei consumatori (in Europa come nelle Americhe) di carne e latte prodotti sinteticamente, o addirittura derivati da animali clonati, costituirà la tappa finale di questo percorso, che parallelamente priverà di contenuto la qualifica di “settore primario dell’economia” tradizionalmente riconosciuta all’agricoltura.
A questo punto andrebbe ricordato che nel 1936, anno dell’ultimo censimento pre-bellico, l’Italia contava, su oltre 43 milioni di abitanti, circa 19,5 milioni di occupati, di cui il 48,7 per cento degli uomini ed il 51,1 per cento delle donne direttamente in agricoltura (la percentuale saliva fino al 70 per cento in regioni come la Lucania, gli Abruzzi e il Molise); e che oggi poco più dell’1 per cento della popolazione attiva è stabilmente occupato nel settore agricolo, (ma la xylella potrebbe involontariamente contribuire ad una ripresa del settore, come si dirà parlando dei trattamenti erbicidi ed insetticidi imposti dalla normativa italiana). Il sacrificio dell’agricoltura e del complesso patrimonio di valori e conoscenze propri alla cultura contadina e rurale veniva giustificato, ancora recentemente, con l’esigenza di privilegiare altri e più moderni asset di sviluppo (dalla siderurgia alla chimica, dall’automobile alla moda): ma oggi anche il più parziale – o distratto – tra gli osservatori sarebbe disposto ad ammettere che il sacrificio dell’agricoltura ha finito per favorire principalmente, se non esclusivamente, la speculazione sul valore fondiario dei terreni e, in ultima analisi, la cementificazione selvaggia di un Paese in grado di sfoggiare, con buona pace delle sopravvenute valutazioni delle agenzie di rating, ben cinque “A”: agricoltura ed alimentazione, appunto, ma anche ambiente, arte ed architettura.
E dalla corsa alla cementificazione
Queste erano le risorse tradizionali – ed esclusive – del Bel paese, che una programmazione oculata avrebbe potuto e dovuto salvaguardare ed opportunamente valorizzare. Basti pensare che, se ancora all’inizio degli anni Cinquanta Roma era circondata dalla stessa campagna che aveva incantato i viaggiatori del Grand Tour, oggi il panorama che offrono le periferie romane (come quelle di qualunque altra città d’Italia) è semplicemente desolante: ciò nonostante, milioni di turisti visitano ancora la capitale ed il resto del Paese, con trend in stabile crescita in alcune regioni, come la Puglia. Certo, è innegabile che il cemento abbia prodotto ricchezza – che comunque è cosa diversa dallo sviluppo – portando soldi nelle casse non solo di soggetti privati (proprietari terrieri, “lottizzatori”, costruttori), ma anche di soggetti pubblici, tanto che gli interessi degli uni e degli altri, in questa materia, ormai si sovrappongono.
Un esempio? La legge Bucalossi del 1977 obbligava i comuni a destinare ad investimenti (acquisizione al demanio di nuove aree, risanamento del patrimonio immobiliare esistente, ecc.) i proventi degli oneri di urbanizzazione, obbligo venuto meno con le riforme introdotte nel 2001 da un governo di sinistra ed in seguito confermate da un governo di destra. È quindi ovvio che la prospettiva di “fare cassa” ha spinto – trasversalmente sul piano politico – gli oltre ottomila comuni d’Italia ad agevolare la corsa alla cementificazione, ciò che spiega perché, in poco tempo, il cemento sia arrivato a fagocitare 100mila ettari di territorio ogni anno. E se si volesse un altro esempio eccolo qui: dal 1985 al 2004, ben tre condoni edilizi hanno permesso all’erario di incassare 16 miliardi di euro, senza però arrestare la tendenza italiana all’abusivismo: se negli anni Ottanta le costruzioni abusive toccavano punte del 28,7 per cento sul totale del costruito, oggi continuano a viaggiare tra il 10 e il 15 per cento (che naturalmente, e congiuntamente con altri record negativi, è la percentuale di gran lunga più alta in Europa).
Di questo passo, le celebri parole attribuite a Toro Seduto (e poco importa se sia stato un altro a pronunciarle) assumeranno, per il Bel Paese, un valore consuntivo, più che profetico: “Quando avrete inquinato l’ultimo fiume, ucciso l’ultimo uccello e abbattuto l’ultimo albero, vi accorgerete che i soldi non si mangiano”. Ed è nel quadro di questa colpevole rinuncia alla valorizzazione delle risorse tradizionali, di questa sistematica devastazione del paesaggio e delle sue componenti, di questo disastro ambientale annunciato tra l’indifferenza di un’opinione pubblica distratta da meccanismi consumistici sempre più suadenti e persuasivi, di questo genocidio sociale e culturale perpetrato in nome di un discutibile concetto di progresso (che porta gli agricoltori di oggi a chiamare “medicina” diserbanti e insetticidi); è dunque nel quadro di queste complesse sinergie che affonda le proprie origini l’epidemia di Xylella fastidiosa. Un’epidemia che avrebbe dovuto costituire non solo l’occasione per riflettere sulla validità del modello di sviluppo finora descritto, ma anche per aprire la strada ad un approccio olistico in agricoltura; e che invece, secondo il ministro dell’Agricoltura in carica nel febbraio 2018, va contrastata mediante l’impiego massiccio di diserbanti ed insetticidi, appena velato dal richiamo alle “buone pratiche agricole” che nessuno (o quasi) sembra ricordare.
Le “cure” normative dell’epidemia di Xylella
L’Unione europea ha iniziato ad occuparsi dell’epidemia di xylella nel 2014, quando la Commissione adottò la prima di una serie di decisioni di esecuzione della direttiva del Consiglio n. 2000/29 dell’8 maggio 2000, concernente la protezione contro l’introduzione e la diffusione nell’Unione europea di organismi nocivi ai vegetali o ai prodotti vegetali. L’ultima in ordine di tempo di tali decisioni di esecuzione, la n. 2015/789 del 18 maggio 2015, è stata modificata ed integrata a più riprese, da ultimo nel dicembre 2017, ed è stata recepita in Italia dal decreto ministeriale 19 giugno 2015, recante misure di emergenza per la prevenzione, il controllo e l’eradicazione della xylella.
L’eradicazione degli ulivi
In sintesi, la disciplina in parola privilegia misure volte ad impedire, anche mediante divieti di importazione di vegetali da Paesi terzi, l’introduzione e la diffusione dell’infezione nel territorio dell’Ue. Ai fini indicati, la misura più nota al grande pubblico, e controversa, è quella concernente l’eradicazione non solo delle piante infette, ma anche delle piante che presentano sintomi di infezione, delle piante sospettate di essere infette e finanche delle piante ospiti potenziali della xylella, “indipendentemente dal loro stato di salute”.
Questa misura, assai dibattuta, ha formato oggetto in sede europea di alcuni ricorsi per annullamento, nonché di una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale amministrativo regionale (Tar) del Lazio e risolta dalla Corte di giustizia con sentenza del 9 giugno 2016. Riconoscendo in via pregiudiziale la validità dell’obbligo stabilito dall’art. 6 della decisione n. 2015/789 di procedere alla rimozione delle piante indipendentemente dal loro stato di salute, nel raggio di 100 metri attorno alle piante infette, la Corte si ispira ad una visione inusualmente forte del principio di precauzione. Certo, la pronuncia della Corte europea tiene conto di esigenze diverse e correlate tra loro: la gravità dell’infezione e l’ampiezza da essa raggiunta (ma anche l’incertezza scientifica relativa alle sue cause); i ritardi delle autorità italiane nello svolgimento delle ispezioni e nella predisposizione di adeguate misure di monitoraggio; la difficoltà di individuare e delimitare una molteplicità di aree interessate a vario titolo dal batterio (zone infette, zone di contenimento, zone di sorveglianza, zone cuscinetto); le polemiche ed il contenzioso che hanno fatto seguito all’adozione dei primi piani di emergenza nazionale; le richieste di una parte dei (grandi) produttori di olio di elaborare ed attuare interventi fitosanitari realmente risolutori, prima ancora di “cure” normative, peraltro di controversa legittimità. Ma, se pure tutto ciò (ed altro ancora) è vero e comprensibile, viene comunque spontaneo chiedersi perché una misura precauzionale così drastica venga imposta in un settore, quello della produzione olearia, che in alcune regioni (o parti di regioni) italiane assume prevalentemente i caratteri dell’economia domestica e non trovi riscontro, invece, in altri settori produttivi dove – e probabilmente proprio a causa di ciò – gli interessi economici sono di rilevanza straordinariamente superiore.
Se a quanto affermato si aggiunge che la diffusione della xylella potrebbe essere stata intenzionale, secondo l’inchiesta della Procura di Lecce citata in apertura, e che l’eradicazione delle piante produrrà effetti diversi ma convergenti – dalla sostituzione di cultivar millenari presenti solo in Italia con varietà non autoctone (ciò che porterà inevitabilmente ad una omologazione della qualità dell’olio pugliese rispetto a quella di altri oli, anche non italiani); alla riconversione dei terreni verso colture di tipo industriale e con più alto valore aggiunto (come la vite); fino all’eliminazione della destinazione agricola dei terreni (per far posto, ad esempio, alle grandi infrastrutture, come il gasdotto Tap: si veda in proposito la sentenza della corte costituzionale n. 105 del 4 aprile 2017) – non appare azzardato credere che la vicenda xylella sia stata affrontata tenendo d’occhio gli interessi di poteri forti, che la sentenza della Corte di giustizia sembra, ancora una volta, non ignorare.
I trattamenti erbicidi ed insetticidi
Nel febbraio 2018, al fine di adeguare la normativa italiana agli atti della Commissione europea che modificavano la decisione n. 2015/789, il ministro dell’Agricoltura ha emanato un ulteriore decreto recante misure di emergenza per la prevenzione, il controllo e l’eradicazione della Xylella fastidiosa.
Nel confermare le misure di ispezione, individuazione e delimitazione delle zone interessate dal batterio, nonché quelle di eradicazione di cui si è detto in precedenza, il decreto ha introdotto ulteriori misure fitosanitarie volte a controllare gli insetti vettori del batterio, appartenenti alla famiglia dei Cercopoidea e comunemente noti, negli stadi giovanili, come “sputacchine”.
Le misure fitosanitarie in parola si concretizzano in operazioni meccaniche quali “i. lavorazioni superficiali del terreno; ii. trinciatura delle erbe; iii. pirodiserbo; iv. trattamenti erbicidi” da eseguirsi nel periodo compreso tra il mese di marzo ed il mese di aprile, allo scopo di eliminare le piante erbacee spontanee.
Non poche perplessità ha suscitato la nuova disposizione, che, imponendo l’eliminazione delle piante erbacee spontanee nel periodo della piena fioritura, e quindi nel periodo in cui gli insetti impollinatori sono al massimo dell’attività, rischia di provocare la drastica riduzione, se non l’estinzione, dei pronubi di buona parte della Puglia e, indirettamente, delle piante selvatiche, con intuibili ricadute sulla biodiversità. Ma, in fondo, non si tratta di una novità per chi ricorda la moria delle api, palesatasi in modo massiccio negli ultimi anni ed affrontata dalla Commissione europea con un approccio meramente risarcitorio e non, come necessariamente avrebbe dovuto essere, precauzionale o almeno preventivo. E, del resto, è nella medesima prospettiva che si collocano gli indennizzi agli agricoltori previsti per l’eradicazione delle piante di olivo, che il Parlamento europeo auspicava fin dal 2015 e che hanno già raggiunto, secondo alcune fonti, la cifra astronomica del miliardo di euro, sufficiente a far intuire quanti e quali interessi siano coinvolti nella vicenda.
Se l’eliminazione delle erbe spontanee mediante trattamento erbicida (notoriamente il più economico, e dunque il più utilizzato, tra quelli indicati dal decreto) può sembrare – ma a torto – cosa ininfluente o di poco conto nel contesto dell’olivicoltura e della produzione dell’olio, anche chi è digiuno di agricoltura può intuire la gravità di un’altra disposizione del decreto. Il riferimento è alla disposizione che impone di “eseguire sulle piante ospiti coltivate tutti gli interventi insetticidi, così come stabilito dal Servizio fitosanitario regionale competente” nel periodo compreso tra il mese di maggio e il mese di dicembre, e cioè nel pieno della fioritura degli ulivi e del successivo periodo di raccolta delle olive.
Ora, non è ben chiaro come il ministro dell’Agricoltura abbia ritenuto di non assumere in considerazione le conseguenze – se non ambientali – almeno politiche di una misura destinata a tradursi nell’irrorazione di oltre 700mila ettari di territorio nazionale, dalla provincia di Bari fino al Capo di Leuca; né come abbia ritenuto di non assumere in considerazione le conseguenze di siffatta misura sulla produzione (e commercializzazione) dell’olio e sulla sua qualità, tenuto conto che la raccolta delle olive, secondo la migliore pratica, si svolge generalmente tra ottobre e novembre; né, tanto meno, come abbia ritenuto di vigilare sull’applicazione della misura in questione su un’area tanto vasta come quella poc’anzi indicata senza fare ricorso all’assunzione di migliaia di nuovi tecnici agronomi e carabinieri forestali, incaricati di ispezioni ad hoc.
La Xylella fa i conti con la società civile
E forse proprio la creazione di nuovi posti di lavoro è una delle chiavi di lettura della vicenda xylella, visto che, al momento, l’unico effetto prodotto dalle misure fin qui esaminate (operazioni meccaniche, trattamenti erbicidi, interventi insetticidi) è stato quello di far aumentare, almeno temporaneamente, l’offerta di manodopera agricola e parallelamente (ma inspiegabilmente, secondo la logica del mercato) di far salire alle stelle i costi relativi (in particolare per la manodopera specializzata: l’acquisto e l’utilizzo di erbicidi ed insetticidi, infatti, sono subordinati ad una specifica abilitazione). In ogni caso non può farsi a meno di evidenziare che si tratta di una “ripresa” dell’occupazione nel settore agricolo purtroppo non finalizzata né alla valorizzazione del patrimonio, né al miglioramento della produzione, coerentemente con la perdita d’identità e di riferimenti socio-culturali segnalata nell’introduzione.
Va da ultimo rilevato che gli interventi insetticidi imposti dal decreto sono stati portati all’attenzione della Commissione europea da un esposto presentato da alcuni rappresentanti della cosiddetta società civile, che ha evidenziato, oltre alla mancata comunicazione del decreto alla Commissione, richiesta ai sensi della citata direttiva 2000/29, la presunta contrarietà tra la normativa italiana e quella europea in materia di insetticidi (con particolare riferimento all’imidacloprid ed all’acetamiprid). Nel momento in cui si scrive, gli esposti sono ancora al vaglio della Commissione, ma hanno avuto l’effetto immediato di far mutare orientamento al Servizio fitosanitario della Regione Puglia, incaricato dal decreto di stabilire tempi e modalità degli interventi insetticidi prescritti. Infatti, fino al 5 giugno 2018, il sito internet del Servizio in questione stabiliva che, da maggio ad agosto, dovessero effettuarsi due “interventi specifici … il primo dei quali con immediatezza”, e distingueva i prodotti da somministrare a seconda delle forme di agricoltura praticata (integrata e biologica). Il 6 giugno 2018, giorno successivo alla presentazione dell’esposto contro il decreto ministeriale ed alla sua pubblicazione sui mezzi d’informazione, il sito internet del Servizio regionale è stato modificato “al fine di fornire chiarimenti sul corretto uso di prodotti fitosanitari”. In verità, non è certo che l’obiettivo dichiarato sia stato conseguito, tenuto conto del fatto che le precisazioni fornite dal Servizio sono del seguente tenore: “non tutti i prodotti formulati a base di acetamiprid … disponibili in commercio sono autorizzati contro la sputacchina su olivo”; “non sono disponibili in commercio prodotti impiegabili in agricoltura biologica”; “è vietato qualsiasi trattamento, con qualsiasi prodotto, finalizzato al controllo del batterio della Xylella fastidiosa, non essendo disponibile in commercio alcun prodotto autorizzato su olivo contro tale patogeno”.
Ricerca, precauzione, tecnologia: chi fermerà la Xylella?
Se i chiarimenti forniti dal Servizio fitosanitario della Regione Puglia hanno prodotto il risultato, paradossale, di aumentare la confusione già esistente in materia, un punto resta fermo nella normativa nazionale ed europea: l’indisponibilità di prodotti o terapie in grado di arrestare la xylella.
Questo refrain porta a sottovalutare la scarsa attenzione che i provvedimenti normativi nazionali ed europei finora esaminati forniscono all’attività di ricerca scientifica, i cui risultati assurgono solo sporadicamente alla ribalta dei mezzi d’informazione (peraltro sempre attenti alle notizie ad alta spendibilità politica sulla xylella). Ma si tratta di un refrain che oggi appare ben logoro, se si pensa che, già nel novembre 2015, una ricerca condotta dall’Università di Foggia aveva dimostrato che 120 alberi infetti, trattati con prodotti specifici (concimi, fertilizzanti e bio-stimolanti, ma non insetticidi), erano stati in grado di superare la presenza del batterio e di sopravvivere. Non occorre poi essere degli entomologi per ricordare i successi conseguiti dalla biologia animale, che hanno permesso di individuare felici esempi di “lotta biologica” (come nel caso dei Coccinellidi, i coleotteri che si nutrono prevalentemente dei pidocchi delle piante). Può davvero credersi in assoluto che l’insetto vettore della xylella, la citata “sputacchina”, non abbia un antagonista naturale che meriti di essere individuato, selezionato ed allevato allo scopo (mediante il finanziamento della relativa attività di ricerca)?
La precauzione a due velocità
Continuando a ignorare o a sottovalutare questi metodi, ed i relativi risultati, si otterrà soltanto di instillare nell’opinione pubblica il convincimento che la ricerca scientifica sia in grado solo di produrre risultati incerti a costi insostenibili ed in tempi eccessivamente lunghi e che, al contrario, la tecnologia fornisca sempre risposte rapide, adeguate ed efficaci. Che poi è esattamente quanto affermano, col supporto di una parte dei mezzi d’informazione, i sostenitori della filiera tecnologia-industria-mercato con riferimento ad una pletora di prodotti la cui immissione in commercio è legittimata prima ancora che siano acquisite le evidenze relative alla loro sicurezza e salubrità, in spregio delle esigenze di interesse generale (la protezione dell’ambiente, la tutela della salute, la salvaguardia della sicurezza alimentare) e di principi generali di diritto (quali il principio di precauzione). Ciò vuol dire, per restare in argomento, legittimare la commercializzazione dell’acetamiprid a prescindere da ogni previa valutazione precauzionale (salvo poi scoprirne la neurotossicità sui mammiferi) e invece applicare, in modo acritico, il principio di precauzione all’espianto massiccio di ulivi sani. La precauzione a due velocità, appunto.
In attesa che la ricerca scientifica individui gli strumenti più efficaci per contrastare la xylella, prima che questa scavalchi definitivamente le Alpi, sembra quindi necessario, da una parte, che le istituzioni si adoperino affinché le cure normative e le soluzioni fitosanitarie non si pongano – o siano percepite dal pubblico – in alternativa o, peggio, in contrasto tra loro e, dall’altra, che le “battaglie” giudiziarie contro i provvedimenti in vigore non finiscano, di fatto, per fare il gioco della xylella, che continua ad espandersi senza incontrare ostacoli di sorta (scientifici, tecnologici o normativi). A questo proposito va appena segnalato che l’apparato giudiziario del Paese corre il rischio di mettere in conto un incremento del contenzioso tra privati, perché qualcuno, prima o poi, riterrà che l’infezione del proprio oliveto sia dovuta all’inerzia o alla negligenza del proprio vicino, che non ha arato o trinciato o diserbato, secondo le modalità e nei termini stabiliti dalla normativa vigente, il suo terreno ed i suoi olivi.
In ogni caso non resta che auspicare, per l’interesse generale, che l’olivicoltura pugliese (e quella italiana) di qualità riesca a superare questa prova senza perdere le sue specificità, anche culturali, che di fatto – e a dispetto dei molti sostenitori del mercato globale – l’hanno resa finora sostanzialmente impermeabile a produttori ed oli stranieri. E, perché no, questa impermeabilità può essere un’ulteriore, ed ennesima, chiave di lettura della vicenda Xylella fastidiosa.
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