La regista Sarah Friedland ha usato il suo discorso di ringraziamento alla Mostra del cinema di Venezia per esprimere il suo sostegno alla popolazione palestinese. Per fortuna, non è stata l’unica.
Zero, la nuova serie Netflix lancia il primo supereroe nero italiano
I protagonisti di Zero ci svelano curiosità e retroscena del pionieristico superhero drama lanciato da Netflix Italia e ispirato ai romanzi di Antonio Dikele Distefano.
Un mondo periferico e “invisibile”, eppure quotidiano e pulsante di vita. Una generazione finora esclusa e adesso mossa da una voglia incontenibile di sentirsi finalmente protagonista. È questo l’universo esplorato dalla serie Zero, pionieristico superhero drama prodotto da Netflix Italia, ispirato al romanzo Non ho mai avuto la mia età (2018, Mondadori), di Antonio Dikele Distefano e che debutta oggi, 21 aprile, in streaming mondiale, con 8 episodi da 20 minuti. Una serie che cerca di combattere pregiudizi e razzismo, mettendo in scena la quotidianità di un gruppo di ragazzi neri, nati e cresciuti in Italia. Quei cosiddetti italiani di seconda generazione, che oggi vorrebbero essere chiamati soltanto italiani e che nella serie sono alle prese con il desiderio universale di trovare il proprio posto nel mondo.
Zero, la trama della serie
Il protagonista è Omar, detto Zero (l’esordiente Giuseppe Dave Seke), giovane rider della periferia milanese, che sogna di lasciare il Barrio (quartiere di fantasia che riproduce il quartiere Barona di Milano), per diventare un fumettista. Vive con suo padre (Alex Van Damme) e sua sorella Awa (Virginia Diop) e le sue giornate trascorrono anonimamente tra la cameretta in cui disegna fumetti e le corse in bicicletta per consegnare le pizze. Un’invisibilità metaforica che improvvisamente diventa reale, quando Zero scopre di poter letteralmente scomparire. Qui iniziano la sua storia e la sua amicizia con un gruppo di ragazzi del quartiere che, spronandolo a usare il suo super potere, uniranno le forze per fermare la spregiudicata impresa immobiliare che sta tentando con tutti i mezzi di impossessarsi del Barrio, cacciando via i suoi abitanti. Nel frattempo Zero si innamorerà di Anna (Beatrice Grannò, già tra i protagonisti della serie Doc), studentessa della Milano bene, che segnerà per lui un punto di svolta.
Raccontare la diversità per trasformarla in normalità
L’ispirazione di fondo della serie arriva dal mondo letterario e autobiografico di Antonio Dikele Distefano, che nei suoi romanzi, diventati molto popolari tra i giovani negli ultimi anni, racconta la sua vita di italiano di seconda generazione, segnata da emarginazione sociale e desiderio di accettazione. Zero però si discosta molto dalla trama del libro cui fa riferimento. “In questa serie c’è un po’ della mia storia di ragazzino italiano cresciuto fuori dal centro dell’attenzione, ma parla anche di tutte quelle persone che si sono sentite sconfitte ancora prima di scendere in campo”, ha raccontato l’autore in conferenza stampa. “In Zero non volevamo raccontare la storia di un supereroe predestinato, ma quella di un ragazzo che è costretto a diventarlo. Zero è la storia di chi impara ad accettare la propria diversità e capisce che, spesso, le cose più importanti – e che alla fine ci salveranno – sono proprio quelle che avevamo tenuto invisibili”.
E non è un caso che Netflix abbia deciso di puntare su una serie come Zero. “Il tema della diversity e dell’inclusion è al centro del nostro interesse a livello globale” ha spiegato Ilaria Castiglioni, manager serie originali italiane di Netflix. “È stato stipulato un fondo d’investimento da 100 milioni di dollari nei prossimi 5 anni per andare a supportare iniziative che possano allargare la base dei talenti sia artistici che in tutte le professionalità del mondo del cinema. Fare il nostro mestiere al meglio per noi significa creare un luogo dove gli artisti possano raccontare storie nuove e inedite”.
Ma c’è un ulteriore passaggio a cui Zero vorrebbe puntare. “Io non sono amante delle lotte, ma credo nella battaglia della normalità”, spiega Dikele Distefano. “Oggi è giusto parlare del fatto che nella serie ci siano attori neri, perché è la prima volta che accade, ma io sarò contento quando arriveremo al punto di non accorgercene più, perché sarà diventata una cosa normale. È quando il linguaggio cambia che anche le persone cambiano”.
Più che una serie, “una missione”
La grande novità introdotta dalla serie sta proprio nel contesto di periferia e nei protagonisti messi al centro: un gruppo di immigrati di seconda generazione nati e cresciuti in Italia. Ragazzi neri, diventati un ponte tra le famiglie di origine e la società, finendo poi per sentirsi degli estranei sia nell’uno che nell’altro contesto. Giovani come tanti, eppure condannati a sentirsi diversi e fuori posto anche a casa loro: in Italia. Ragazzi per i quali le origini di sangue sono solo “un’eredità da cui affrancarsi, per potersi emancipare e rivendicare il diritto ad essere riconosciuti a tutti gli effetti come cittadini italiani”, spiega il creatore della serie Menotti (fumettista e co-sceneggiatore del film Lo chiamavano Jeeg Robot). Tema, questo, profondamente sentito dagli interpreti di Zero, non solo “per copione”, ma anche nella vita.
Quasi tutti figli di immigrati di origine africana, gli attori, infatti, conoscono in modo diretto la realtà che raccontano, e ammettono di aver vissuto questa esperienza più che come un lavoro, come una missione. Haroun Fall, che nella serie interpreta Sharif, il leader del gruppo, racconta: “Stavo facendo tournee teatrale quando vidi il video di Antonio che annunciava il casting. Avevo letto i suoi libri e sapevo che lui andava nella stessa direzione dove volevo andare io. Capii subito che per me era fondamentale partecipare per condividere questo messaggio. Sentivo che sarebbe stato qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la Storia”.
Vogliamo segnare un “punto zero”
Che Zero sia un caso televisivo interessante lo dimostra il fatto che a parlarne sia stato anche il New York Times, con un’intervista a Dikele Distefano e a Ilaria Castiglioni, dal titolo Netflix to debut Italy’s first tv show with a majority black cast (Netflix debutterà con il primo programma televisivo italiano con un cast prevalentemente di neri). Un’operazione così nuova per il nostro Paese che i produttori si sono scontrati con un dato di fatto: la quasi totale mancanza di attori neri professionisti cui assegnare i ruoli. Tanto che per molti degli interpreti si è trattato di un vero e proprio debutto.
A cominciare dal protagonista, il 25enne padovano Giuseppe Dave Seke, ex magazziniere che, dopo aver risposto all’appello via social pubblicato da Antonio Dikele Distefano, si è trovato “a vivere una favola”, come lui stesso ha raccontato. “Non avevo mai recitato prima e non mi sentivo all’altezza, ma quando il giorno del mio compleanno mi hanno chiamato per il casting ho deciso di provarci. Ho preso il treno e sono andato a Milano, senza grandi aspettative. Quando mi hanno preso ho trovato la forza in questo gruppo incredibile che è stata la cosa più bella che potesse capitarmi”.
Tra gli attori del cast con una preparazione artistica pregressa invece c’è Haroun Fall, che ha raccontato: “Io ho frequentato il centro sperimentale di cinematografia e sono rimasto stupito che ci fossero pochissime persone nere tra gli studenti”. Ora, però, la serie potrebbe creare, anche con un gioco di parole, un “punto zero”, come si augura Dikele. “La cosa che conta di più è esistere. Dicevano che non esistono attori neri, pensavano fosse impossibile trovarli. Ora vediamo che ci sono e in futuro dovranno esistere anche registi neri. Zero è una prima finestra importante verso una rappresentazione migliore. Non parla di tutti i ragazzi neri italiani, ma parla attraverso ciò che ci accomuna tutti: le emozioni”.
L’amicizia tra i protagonisti nata durante il lockdown
La coesione e il grande feeling nati tra i ragazzi del cast ha aiutato gli autori e i quattro registi della serie (Paola Randi, Ivan Silvestrini, Margherita Ferri, Mohamed Hossameldin) a trovare quella autenticità che cercavano. Ad agevolare questa dinamica è stata, paradossalmente, la pandemia che ha dato ai ragazzi l’occasione di passare insieme i tre mesi del primo lockdown, trascorso dal cast in un hotel di Roma, in attesa di poter girare. Una condizione che ha fatto nascere amicizie e relazioni profonde, messe a frutto sul set dai registi che hanno ammesso di aver tratto grande ispirazione dal mondo degli attori, cercando di riproporlo in modo autentico sullo schermo.
Quando si fa un cast così si può attingere molto dall’ autenticità degli interpreti e metterla in scena attraverso il linguaggio e i gesti. Ci siamo fatti abbracciare dalla loro energia.
Invisibilità e visual effects, un risultato innovativo
Ma questo non è l’unico aspetto a rendere Zero un caso unico nel nostro panorama televisivo, che raramente esplora il genere fantasy e supereroistico. Un approccio scelto “per alleggerire e creare intrattenimento”, come spiegato dagli autori della serie, che non hanno voluto mettere al centro della narrazione la questione sociale, ma la storia di un gruppo di amici.
La lotta principale è stata quella di raccontare una storia senza fare alcuna “dichiarazione esplicita”, sapendo che, se avessimo creato personaggi forti, allora “il messaggio” sarebbe inevitabilmente arrivato al pubblico.
L’idea di un supereroe nero italiano girava nella testa da tempo ad Antono Dikele Distefano, da sempre appassionato di anime giapponesi e che già immagina “ragazzini vestiti da Zero a carnevale”.
Per me l’orgoglio più grande è sapere che oggi i miei nipoti e tutti i ragazzi neri avranno dei riferimenti autentici nei protagonisti di Zero e che vedendo che questi attori ce l’hanno fatta pensino di potercela fare anche loro
E proprio la parte fantasy è senz’altro quella visivamente più accattivante e innovativa della serie, grazie a uno studio molto approfondito sui visual effects, come spiegato dal produttore esecutivo di Fabula Pictures Nicola De Angelis: “La parte dell’invisibilità doveva essere qualcosa che non stonasse con la realtà quotidiana e non si discostasse troppo dal tono generale della serie. Per questo è stata fatta una ricerca molto lunga e complessa, che ha cercato riferimenti anche nel mondo dei manga. Abbiamo voluto discostarci dal preesistente con grande impegno e apertura mentale e anche mescolando più software”.
Tanti temi, forse troppi
Sono davvero tanti i temi che gli autori hanno voluto inserire nella serie, accanto a quello centrale dell’inclusione. Temi universali come l’amicizia, l’amore, il senso di appartenenza a un gruppo e a un luogo, l’importanza di essere riconosciuto dall’altro, per potersi davvero realizzare (e da invisibile diventare visibile). E ancora: il tema delle periferie da salvare, della gentrificazione, della multiculturalità. Talmente tanti input da risultare troppi. Il difetto della serie, pur riconoscendole tutti i meriti e il valore che abbiamo fin qui raccontato, è infatti quello di una sceneggiatura lacunosa e poco convincente, che semina tanto, per poi non riuscire a raccogliere tutto, generando un effetto di confusione narrativa. Il susseguirsi troppo rapido degli accadimenti rende sbrigativi diversi passaggi della trama e non approfondisce mai le storie dei personaggi, riducendo alcuni di loro a delle macchiette e condannandone altri all’immediato oblio. Un approccio che finisce per ostacolare l’empatia dello spettatore, disorientandolo di continuo. Ad amplificare questo effetto straniante è anche la scelta di mescolare molti generi: da quello giovanile, al racconto di formazione, dal supereroistico al soprannaturale, dallo street crime al thriller. Una complessità che soltanto una seconda stagione potrebbe chiarire, magari dando più respiro e più spazio alle tante linee narrative già aperte. Le carte da giocare per poter andare nella giusta direzione non mancano.
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