Nel gergo politico statunitense, si parla della “sorpresa di ottobre” per riferirsi a un evento imprevedibile che scompagina le carte a poche settimane dalle elezioni presidenziali. Come il presunto complotto legato alla crisi degli ostaggi di cui si speculò molto alla vigilia del confronto tra Ronald Reagan e Jimmy Carter. O, per citare esempi più recenti, all’indagine sulle mail che Hillary Clinton aveva inviato dal proprio indirizzo personale durante l’incarico come segretaria di Stato. Nelle frenetiche settimane che precedono le elezioni presidenziali del 5 novembre 2024, protagonisti delle prime pagine – e, soprattutto, delle vite dei cittadini americani – sono stati gli uragani Helene e Milton che si sono abbattuti uno dopo l’altro sulla Florida e altri stati meridionali. Dimostrando, qualora ce ne fosse ancora bisogno, quanto gli Stati Uniti siano enormemente esposti alle conseguenze della crisi climatica. Una crisi di cui sono storicamente i primi responsabili, per volume di emissioni di gas serra. È dunque fondamentale, in vista della sfida tra la democratica Kamala Harris e il repubblicano Donald Trump, fare il punto su cosa ha fatto l’amministrazione uscente, sui grandi temi ancora aperti e su come i due candidati intendono affrontarli.
Clima, il bilancio di quattro anni di amministrazione di Joe Biden
Durante il primo giorno del suo mandato come 46° presidente degli Stati Uniti, Joe Biden ha avviato la procedura per far rientrare gli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi sul clima, abbandonato per volontà del suo predecessore Donald Trump. Il testo richiede agli stati di presentare le proprie promesse di riduzione delle emissioni (nationally determined contributions, ndc): cosa che l’amministrazione Biden ha fatto, impegnandosi a sforbiciare le emissioni del 50-52 per cento entro il 2030, rispetto ai livelli del 2005.
Oltre alla CO2 ci sono altri gas che contribuiscono all’effetto serra, per esempio gli idrofluorocarburi (Hfc) e il metano. Per la riduzione dei primi, il Senato ha ratificato l’emendamento di Kigali e l’Agenzia per la protezione ambientale (Epa) ha emanato normative ad hoc. Il metano, invece, è al centro di un piano d’azione approvato dall’amministrazione Biden a novembre 2022 e sostanziato da una cinquantina di misure specifiche, finanziate con 20 miliardi di dollari. Durante la Cop28 di Dubai, l’Epa ha annunciato una norma specifica per abbattere le emissioni di metano dagli impianti petroliferi e del gas naturale.
Inflation reduction act
Chiaramente, un conto è annunciare un obiettivo, un conto è raggiungerlo. A questo serve l’Inflation reduction act (approvato nell’estate del 2022) che, a dispetto del nome, è il più grande piano di investimenti per il clima nella storia americana. Una normativa dalla gestazione non facile, ridimensionata visibilmente rispetto alle ambizioni iniziali, ma che ha comunque ha spronato l’adozione delle tecnologie pulite. Stando ai dati raccolti dalla coalizione E2, a partire dalla sua approvazione sono stati annunciati 348 grandi progetti legati alle energie rinnovabili in quaranta stati americani, per un volume totale di investimenti che supera i 129 miliardi di dollari. Tutto questo ha contribuito alla creazione di oltre 112mila posti di lavoro. Il pacchetto prevede anche generosi sgravi fiscali, rivolti per esempio ai cittadini che acquistano auto elettriche e ristrutturano la propria casa per abbatterne i consumi.
Mobilità a zero emissioni
Il World Resources Institute fa un bilancio degli obiettivi in materia di clima che l’amministrazione Biden ha centrato e di quelli che ha fallito. Per quanto riguarda l’azzeramento delle emissioni dei veicoli nuovi, parla di “progressi significativi”. Nel 2021, infatti, Joe Biden ha fissato l’obiettivo per cui, su tutti i nuovi veicoli per il trasporto di passeggeri venduti, il 50 per cento debba essere a emissioni zero entro il 2030. L’Epa, da parte sua, ha reso più severi i parametri da rispettare sulle emissioni di auto e furgoni; l’amministrazione ha fatto lo stesso per i mezzi pesanti, con l’obiettivo di evitare di emettere in atmosfera un miliardo di tonnellate di gas serra entro il 2055.
Si stima che, grazie anche a questi interventi, più della metà delle auto nuove vendute entro il 2030 sarà elettrica o ibrida plug-in; nel 2023 la quota di mercato è stata del 9 per cento, in forte crescita sull’anno precedente. Servirà certamente una rete di stazioni di ricarica, da costruire anche grazie a un finanziamento pari a 5 miliardi di dollari stanziato attraverso la legge bipartisan sulle infrastrutture.
Fonti rinnovabili ed efficienza energetica
Il 2035 è la scadenza che Joe Biden ha fissato per la completa decarbonizzazione della produzione di energia elettrica negli Stati Uniti. Una transizione aiutata dagli sgravi fiscali contenuti nell’Inflation recuction act, ma anche dall’obbligo per le agenzie federali di approvvigionarsi esclusivamente di energia pulita entro la fine del decennio. Anche i limiti imposti sulle emissioni delle centrali a combustibili fossili avranno un ruolo, perché renderanno più convenienti gli impianti rinnovabili. Secondo il World Resources Institute, è ancora presto per poter dire se questo grande obiettivo verrà effettivamente raggiunto. Il punto debole, in particolare, sta nelle infrastrutture necessarie per trasportare l’energia prodotta dalle aree più soleggiate e ventose fino a città e zone industriali, dove si concentra il fabbisogno.
In parallelo, l’Inflation reduction act introduce sgravi fiscali e un fondo da 9 miliardi di dollari per spingere l’installazione di tecnologie per abbattere i consumi e le emissioni degli edifici, tra cui pompe di calore, elettrodomestici con buone prestazioni energetiche, sistemi di accumulo. Sulla fabbricazione di pompe di calore, in particolare, serve un’accelerazione. Il dipartimento per l’Energia ha rafforzato gli standard sull’efficienza energetica di alcuni elettrodomestici, tra cui frigoriferi, congelatori, scaldabagno e lavatrici, ma ne mancano altri all’appello. Si inizia a parlare di eliminare il gas negli edifici nuovi, ma solo a livello statale: New York, per esempio, si sta muovendo in questa direzione.
C’è da dire però che durante la presidenza Biden, la stessa che ha approvato l’Inflation reduction act, la produzione petrolifera ha sfiorato i 14 milioni di barili al giorno, facendo degli Stati Uniti il primo produttore mondiale di greggio. Se infatti da un lato la transizione ecologica procede a ritmo sostenuto, dall’altro lato gli investimenti effettuati in passato per l’indipendenza energetica, uniti all’impennata dei prezzi dell’energia, hanno fatto sì che i giacimenti di petrolio e gas diventassero molto più fruttuosi in termini economici. Protagonista assoluto il gas naturale, estratto mediante la tecnica del fracking.
Ed è vero che l’amministrazione Biden ha salvato dalle trivelle parti importanti del territorio, per esempio un’area da 53mila chilometri in Alaska, ma è vero anche che ha dato il via libera a una bomba climatica come il progetto Willow. Si tratta di un gigantesco progetto di trivellazione che avrà lo stesso impatto della riaccensione di un terzo delle centrali a carbone degli Stati Uniti.
Carbon tax
C’è un punto sul quale, secondo l’analisi del World Resources Institute, l’amministrazione Biden è del tutto fuori strada: la cosiddetta carbon tax, cioè una tassazione sulle emissioni di gas serra. L’Unione europea ha introdotto meccanismi che, seppure in misura parziale, sono riconducibili a questo approccio: è il caso del sistema di scambio delle emissioni (Ets) e del meccanismo di compensazione della CO2 alla frontiera. Negli Stati Uniti, il dibattito è ancora a un livello embrionale. Nel 2023 è iniziato l’iter di alcune leggi (la cosiddetta Prove it e il Foreign pollution fee act) intenzionate a scoraggiare la concorrenza al ribasso sui prezzi da parte di aziende estere, sottoposte a regolamentazioni ambientali più blande.
Le posizioni sul clima di Donald Trump e Kamala Harris
Gli Stati Uniti riusciranno realmente a centrare i loro obiettivi di decarbonizzazione? La risposta dipenderà in gran parte da chi uscirà vincitore dalle elezioni presidenziali Usa del 5 novembre 2024. E se è vero che per vari aspetti Donald Trump e Kamala Harris sono agli antipodi l’uno rispetto all’altra, è vero anche che conquistare l’elettorato indeciso negli stati in bilico impone di scendere a compromessi.
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Esemplare il tema dell’energia, da cui dipendono a cascata tutti gli altri. Dopo due decenni di sostanziale stabilità, la domanda di elettricità è tornata a crescere visibilmente, in parte per la ripresa economica e industriale e in parte per il forte fabbisogno da parte dei data center, del mining di criptovalute e dell’affermarsi della mobilità elettrica. Su come produrre questa energia elettrica, la ricetta di Trump è sempre la stessa: “Drill, baby, drill”. I colossi petroliferi ne sono ben contenti, tanto da avergli elargito donazioni generose (ma di gran lunga inferiori rispetto al miliardo di dollari a cui ambiva). Trump, d’altra parte, è il presidente che ha espresso posizioni negazioniste nei confronti dei cambiamenti climatici e ha fatto uscire gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi. Se rieletto, assicura che lo farà di nuovo, anzi: paventa di dire addio anche alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc).
Con i sondaggi sostanzialmente in parità, sarebbe un inutile esercizio di stile fare previsioni sulle conseguenze concrete che le elezioni presidenziali Usa 2024 comporteranno per il clima. Quel che è certo è che le conseguenze ci saranno. Perché l’azione per il clima non può fare a meno della prima economia globale. E perché, viceversa, la prima economia globale deve decidere su cosaimprontare la sua leadership. Può restare ancorata a un modello che magari garantisce profitti nell’immediato ma ha una data di scadenza. Oppure può abbracciare con coraggio la transizione ecologica, consapevole delle complessità che porta con sé.
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